L’economia del dono nel Canada atlantico: riflessioni soggettive di una sociologa femminista
di Linda Christiansen-Ruffman, Saint Mary’s University
International Feminist University Network, Halifax, Nuova Scozia, Canada
Introduzione
Come sociologa, sapevo che mi sarei trovata in uno spazio culturale diverso arrivando nella Nuova Scozia. Più di trent’anni fa mi trasferii dalla Columbia University di New York ad Halifax, capitale della Nuova Scozia, la più grande città canadese ad est di Montreal. La mia prima ricerca ad Halifax (una tesi di Dottorato su: I nuovi arrivati ad Halifax; studi sulla loro partecipazione alla cittadinanza) indicava che ci voleva più tempo ad Halifax rispetto ad altre zone del Nord America, secondo quanto riportava la letteratura specializzata, perché un nuovo arrivato fosse considerato parte della comunità.
I “nuovi arrivati”, gli “uccelli migratori” (termine coniato da un membro eletto del consiglio comunale in carica), “quelli di fuori” (locuzione comune in Terranova) non erano accolti bene dagli abitanti. Nei primi anni ‘70, nelle riunioni pubbliche su questioni riguardanti la pianificazione e lo sviluppo, spesso veniva chiesto ai nuovi arrivati: “Da quanto tempo vivi qui? E da dove vieni?” Poter affermare di essere nati ad Halifax decisamente aggiungeva credibilità a ciò che si diceva.
Ho notato poi che le relazioni sociali in questa regione erano diverse. Lo status familiare aveva un’importanza strutturale nella comunità non dissimile dalla classe sociale o dalla casta in altre società del mondo. Si racconta che Henry Hicks, ex-Presidente dell’Università Dalhousie e uomo politico, fosse capace di ricevere gli studenti all’Università e collocarli in uno schema genealogico basandosi sul loro cognome e la loro provenienza geografica. Gran parte degli abitanti di Halifax facevano domande sulla famiglia di un forestiero (e sulla sua posizione genealogica al suo interno) come meccanismo per localizzarlo socialmente, allo stesso modo in cui la gente oggi riuscirebbe a identificare uno straniero dalla sua occupazione (con domande del tipo “che lavoro fai?”)
Quando nel 1968 dissi a un pranzo che non conoscevo i nomi da signorine delle mie quattro bisnonne, la moglie del Sostituto Governatore chiamò suo marito, che si trovava all’altra estremità della stanza, seduto a un altro tavolo, per raccontargli di questo bizzarro fenomeno. Chiaramente avevo infranto la convinzione comune che tutti sono inseriti in uno schema genealogico di fondamentale importanza sociale sia per loro che per gli altri nella comunità.
Trent’anni dopo e solo dopo essere stata introdotta ai concetti di Genevieve Vaughan sull'”economia del dono”, ho riconosciuto quale era il posto del dono nella cultura del luogo.
La prima parte di questo saggio illustra le relazioni caratterizzate dal dono in questa zona, tratte dai miei ricordi personali e da ricerche nella città di Halifax, nella regione di Maritime (che include le province della Nuova Scozia, dell’isola Prince Edward e del Nuovo Brunswick) e nel Canada atlantico, la zona più ampia che comprende le aree marittime e anche la provincia di Terranova e il Labrador (vedere sulla carta). Dunque mi rivolgo a ciò che inizialmente mi era sembrata un’idea sorprendente e apparentemente contraddittoria, cioè l’idea del dono in cui mi sono imbattuta di recente, che mi è stata riferita da una donna di una piccola comunità di pescatori della Nuova Scozia, e utilizzo l’analisi sociologica del dono per riconoscere i suoi diversi significati nonché la distorsione e il furto ad opera delle società e delle culture capitaliste. Non meraviglia che il dono sia visto con sospetto da alcune persone. Il saggio si chiude con una disamina del significato femminista del dono come modello alternativo e strada verso relazioni sociali che sostengano la vita e le società non-patriarcali del futuro.
Osservazioni sul dono nella Nuova Scozia
Il mio ricordo più vivido dell’economia del dono risale ai primi anni ‘70, dopo che ci eravamo trasferiti in una comunità di pescatori della zona. Una mattina fummo svegliati da un forte bussare alla porta. Era un vicino, con un pezzo di halibut appena pescato. Non c’era un’occasione speciale che motivasse quel regalo. Disse molto poco, solo che aveva più pesce di quanto gli servisse e che pensava che ne avremmo gradito un po’. Che minimizzazione! Il fatto che avesse pensato a noi ci aiutò a sentirci parte della comunità. Il sapore delizioso del pesce fresco persiste ancora tra i ricordi stratificati di doni analoghi tra vicini in quella comunità. Come sociologa che prima aveva vissuto solo in zone urbane e suburbane, ricordo quanto fosse diverso vivere in un luogo come questo dove prevalevano norme relazionali e comunitarie piuttosto che individualiste.
Un altro esempio più recente mostra come la tradizione del dono in Nuova Scozia continui, sebbene purtroppo non con la stessa predominanza, nella comunità in cui viviamo adesso. Nel settembre 2003 mio marito ed io stavamo tornando a casa in auto dopo un lungo viaggio. Eravamo sull’autostrada principale in un’area rurale della Nuova Scozia dopo il tramonto quando la ruota anteriore sinistra si sgonfiò. Così accostammo al ciglio della strada. Era una notte molto scura, e senza luna; camion e macchine sfrecciavano mentre noi tentavamo di trovare la valvola, le istruzioni e la torcia a pile, quando due uomini ci vennero incontro da una strada laterale. Padre e figlio dissero che ci avevano notato e avevano pensato che avessimo bisogno di aiuto. Cambiarono il pneumatico e rifiutarono la ricompensa in denaro che mio marito provò ad offrirgli “in cambio”.
L’ospitalità che ancora contraddistingue la cultura del Canada atlantico, specialmente da parte di coloro che reputano essere “meno benestanti”, spesso viene notata dai forestieri non abituati alla generosità. I giornali nella Nuova Scozia e in Terranova spesso contengono lettere di ringraziamento alla comunità da parte dei parenti in lutto di coloro che morirono nel disastro aereo della Swiss Air al largo della costa della Nuova Scozia nel 1998 e di passeggeri che furono ospiti per giorni nelle case e nelle comunità in Terranova e nella Nuova Scozia quando molti aerei che tornavano dall’Europa furono repentinamente fatti atterrare in questa regione l’11 settembre del 2001, giorni in cui due aerei attaccarono le torri del World Trade Center a New York. Inoltre abbondano le storie di viaggiatori accolti in casa di gente che vive nei pressi dell’autostrada per offrire riparo finché un temporale non passa e di cooperazione tra comunità in seguito a qualche disastro naturale.
La ricerca del 1999 presso le comunità costiere della Nuova Scozia fornisce anche una prova di atti di generosità meno visibili, ma quotidiani, doni che spesso sono talmente dati per scontati che sembrano essere ignorati e non visti sia da chi dà che da chi riceve. Questi atti di buon vicinato dati per scontati includono il passaggio all’amico o vicino sprovvisto di mezzo di trasporto, il cibo elargito agli anziani o condiviso con i poveri, e le offerte di aiuto nei momenti di emergenza. Nelle interviste di donne di comunità devastate dalla sospensione dei permessi di pesca, trovammo che le offerte di sostegno alle persone non erano considerate “lavoro volontario” da chi lo svolgeva. Abbiamo rilevato anche che le donne si affliggevano non solo per le sventure della propria famiglia, ma per ciò che non erano più in grado di fare per i loro vicini; senza i soldi per la benzina o per l’assicurazione dell’auto, i vicini anziani e i bambini del luogo non potevano più andare dal dottore, allo spaccio o agli eventi collettivi.
Il lavoro della comunità femminile nel Labrador
In alcune zone del Canada atlantico il modello del dare materno si estende alla cura delle donne per la comunità stessa. Come per il lavoro materno del donare, comunque, i contributi sono spesso invisibili e non riconosciuti sia dagli estranei che dagli stessi membri del gruppo. Diventa un dato scontato e sottinteso, non formulato e non considerato da chi si occupa di programmazione sociale, economica e politica. La mia ricerca in alcune comunità costiere nella seconda metà degli anni ‘70 arrivò alla conclusione che ci sarebbe voluto parecchio a riconoscere la forza e la presenza delle donne locali e il loro grande lavoro in comunità per le due ragioni che seguono.
1 Ci arrivai dopo aver interiorizzato la versione popolare degli insegnamenti del movimento delle donne del tempo, che tracciava una profonda distinzione dicotomica tra donne “tradizionali” e “moderne” (tra le quali mi collocavo con vanto). In base a ciò che vedevo, questa interpretazione dicotomica inizialmente mi portò a considerare le donne del luogo “arretrate”. Quando andai a una riunione pubblica, ad esempio, vidi che le donne stavano sedute da un lato della stanza, dicendo poco o niente, e gli uomini dall’altro lato, al centro dell’attenzione della delegazione (maschile) governativa in visita; altre donne stavano nella parte posteriore della stanza a servire il caffè, mentre il tavolo totalmente maschile dei funzionari governativi e delle autorità era nella parte anteriore. Fu soltanto dopo molte ricerche e analisi che iniziai a riconoscere che questa dicotomia “tradizionale/moderno” che implicava “progresso” era falsa. Mi aveva portata a dare un’interpretazione infondata sullo stereotipo della “donna tradizionale” che avevo documentato in occasione di questa riunione in Labrador, come spiegherò tra poco.
2 Le relazioni di comunità erano velate da una spessa facciata patriarcale. I commissari dei governi in visita, come pure gli accademici (vedi Matthews, 1976) descrivevano la cultura come fortemente dominata dal maschile, nonostante le palesi prove del contrario, che iniziai a notare a poco a poco.
In verità fu un’arrabbiatissima amministratrice del Labrador a farmi conoscere il libro di Matthews intitolato “There’s No Better Place Than Here” (“Non esiste un posto migliore di questo”).
A una cena, mi trascinò via dalla tavola quando seppe che ero una sociologa; voleva mostrarmi quello che considerava un libro oltraggioso, fazioso e discriminatorio che prendeva una gran cantonata sulla gente come lei. La metodologia del libro razionalizza l’esclusione delle donne dal campione in esame tramite argomenti dubbi sui problemi metodologici e sull’assunto che le donne non sono leader nella Terranova e in Labrador; poi conclude, più avanti, che una delle tre comunità studiate non sarebbe sopravvissuta senza le azioni di una certa donna, una descrizione che decisamente ricorda una donna leader. In aggiunta all’affronto che questa donna leader leggeva nella colossale discriminazione sessuale, tra le indicazioni della presenza femminile vi era il fatto che il direttore esecutivo del coordinamento della comunità era donna e l’Istituto delle Donne aveva un seggio all’Assemblea dell’associazione per lo sviluppo della comunità. Effettivamente, per quei tempi, le donne avevano più presenza pubblica lì di quanto non avvenisse in situazioni simili nella ipoteticamente più progressista Halifax e in altre aree urbane, dove c’erano livelli più alti di misoginia tra le stesse donne.
Quando tornai sul luogo della mia ricerca con una prospettiva specifica sulle donne, mi fu detto più e più volte dalle donne che “senza donne non ci sarebbe alcuna comunità”. Le donne mi fecero notare come “uomini di governo o religiosi che venivano da fuori” non capivano che erano proprio le donne a far accadere le cose nella comunità (vedi Christiansen-Ruffman, 1979; 1997).
Quando dissi agli uomini che ero ritornata lì per studiare le donne, all’inizio esprimevano in genere stupore e costernazione (poiché evidentemente stavo violando la facciata patriarcale), ma, dopo qualche istante di silenzio, descrivevano l’importanza delle madri nelle famiglie e nella comunità. Tendevano a non menzionare le loro mogli, sebbene vedessi donne di tutte le età amministrare le famiglie, affari e conti di famiglia inclusi, le collette e le riunioni per discutere questioni riguardanti la collettività e affrontarne le crisi.
Diversamente dal carattere privato del domestico in cui sono cresciuta, specifiche parti della casa in queste comunità del nord erano considerate pubbliche. Le cucine delle donne, in effett, avevano la funzione di spazi pubblici per la collettività, aperti a tutti quelli che aprivano la porta ed entravano per sedersi un po’, riscaldarsi, chiacchierare, riposare, sentire le novità, prendere una tazza di tè dalla teiera messa perennemente a bollire sul fornello. Non mi sono mai sentita a mio agio con l’abitudine, tipica di chi non ha una cultura della proprietà, di non bussare né annunciare il mio arrivo, ma avendo sperimentato il pungente vento del nord, potevo interpretare quest’usanza come un dono di comunità, che incoraggiava la socializzazione o, forse più precisamente, sosteneva le relazioni sociali considerando implicite le relazioni di comunità. Le donne erano le artefici e le amministratrici di questi spazi pubblici.
“Ordinaria amministrazione?” Un’interpretazione alternativa del dono e delle sue implicazioni nella Nuova Scozia
Nel 2003, sedevo attorno a un tavolo con sette donne di una piccola comunità costiera delle Nuova Scozia rurale, discutendo argomenti e problemi del momento. Una donna chiese come poteva dare a suo marito il cibo di cui aveva bisogno per problemi di salute. Qualche giorno prima il dottore le aveva consegnato una lista di cibi sani, ma nessuno di quelli si trovava in loco. Tra le discussioni sui problemi quotidiani della comunità – poco denaro per il cibo, mancanza di alloggi per donne sole, problemi di impiego e la recente morte di un genitore che una delle donne aveva accudito per quindici anni, una donna, che chiamerò Mary, fece un’affermazione stupefacente. Con fervore, introdusse l’idea del dono nella conversazione come uno dei suoi problemi principali. Rimasi totalmente stupita. Avevo pensato che tantissime cose discusse nella conversazione si realizzassero grazie a relazioni di dono – donne che si aiutavano, che creavano supporto e opportunità di formazione per altri, che si prendevano cura dei genitori, che fornivano le infrastrutture per la banca del cibo, i trasporti per cercare un alloggio… ma Mary era l’unica a usare la parola “dono” – e la odiava. Disse che le stava rovinando la vita. Parlava con una tale rabbia, descrivendo come sua cognata arrivasse a spendere 300/500 dollari a bambino per i regali di Natale. Regali come quelli per lei erano impossibili, totalmente fuori dalla sua portata. Il dono stava distruggendo le sue relazioni con i famigliari, rendendole impossibili.
Questa discussione mostra varie caratteristiche del dono nella società della Nuova Scozia contemporanea. Dal punto di vista sociologico, indica quante relazioni di comunità si basino su “liberi doni” o “doni disinteressati”, non visti e spesso anche non riconosciuti come tali dalla gente della comunità – sia da chi donava che da chi riceveva. Certamente, il donare e la generosità reciproca sembrano essere inestricabilmente collegati. Forse a causa della loro natura scontata e implicita in certe circostanze, pare che la gente tenda più a descriverli in astratto o dopo che tali relazioni si sono perdute, piuttosto che descriverli nella vita quotidiana.
In secondo luogo, la veemenza e l’intensità della preoccupazione di Mary per il “problema” del “dono” sono associate a uno spostamento socio-culturale del suo significato sociale. Il dono diviene sempre più mercificato e usurpato fino ad assumere alcune delle caratteristiche peggiori delle relazioni capitalistiche. Il dono alimenta e rinforza sempre più una società materialista orientata al mercato: al pari della merce è convalidato dalla pubblicità, dai grandi centri commerciali e da una cultura sempre più indirizzata al consumo. La prevalenza di questo dono mercificato nella mente di Mary non sorprende data la prevalenza del dono come merce nella pubblicità e nei negozi di tutto il Canada atlantico; a dicembre 2003, ancor prima che le strenne natalizie terminassero, le catene locali di supermercati erano già piene di regali per San Valentino 2004.
Terzo punto, l’uso esplicito del termine “dono” è associato nell’immaginario collettivo con l’idea di “scambiarsi i doni”, o scambio, baratto di doni, sotto l’esplicito presupposto che lo scambio dovrebbe rispecchiare le relazioni sociali. La conversione dei doni nel loro valore monetario insieme all’idea di ricambiare avvia un processo d’inflazione tra amici e parenti. I doni diventano simboli delle relazioni sociali, con la tendenza a regalare a amici e fratelli lo stesso valore di scambio. Questa idea dell’equivalenza dello scambio può sia rafforzare l’uguaglianza nelle relazioni sociali, che lacerare le stesse relazioni quando contraccambiare è impossibile; quando una parte non è in grado di partecipare allo “scambio alla pari”, entra in gioco la “carità”. Questo processo stabilisce e rinforza le idee di gerarchia e classe sociale mentre falliscono le relazioni del dono.
La questione inattesa sollevata da Mary è un indicatore di ciò che potremmo chiamare “falsa equivalenza manifesta”. La parola “dono” è la stessa, ma assume due significati molto diversi dovuti all’appropriazione del dono da parte di culture capitalistiche e patriarcali. Nuove caratteristiche sono attribuite ai significati comuni del termine, spesso forzate dal mercato e dalla pubblicità e da “letture” e valutazioni dicotomiche da parte del pubblico che ascolta. Nel caso di Mary, ad esempio, il “valore” del dono non si misura più dalla dedizione o dal tempo impiegato a farlo; l’unico modo di misurare un dono è diventato il suo valore monetario sul mercato, che volgarizza e “schernisce” i doni pittoreschi, “a buon mercato” o senza valore monetario. Di più, la nozione di “scambio di doni” ha assunto il significato di equivalenza di valore di mercato. Questa appropriazione culturale del concetto di cosa costituisca un dono fa luce sul modo comune tra i potenti di riuscire a spostare gli schemi sociali in modi ingegnosi ed efficaci cui è difficile reagire, persino quando il meccanismo viene svelato.
Le ricerche presso le comunità costiere della Nuova Scozia hanno accertato che il senso di sé delle donne, il senso delle loro comunità e delle loro relazioni sociali venivano lacerate da un insieme di processi collegati alla revoca dei permessi di pesca, avviata da quella che era stata definita una “crisi ambientale da eccesso di pesca”. Riforme governative, l’accorpamento delle industrie della pesca, un allontanamento delle politiche e della cultura verso l’individualismo e il fondamentalismo economico costituivano l’insieme di politiche neoliberiste che si opponevano a questa crisi. I delegati del governo del Canada si vantano del “successo” delle industrie della pesca, ora più in attivo che mai in termine di valore che si ricava oggi da specie precedentemente inutilizzate. Queste soluzioni neoliberiste e la politica di indirizzare l’industria della pesca verso “specie inutilizzate” probabilmente nel lungo periodo aggraveranno la crisi ambientale – così come minacceranno l’infrastruttura sociale che ha sostenuto queste comunità marittime e le loro tradizioni di dono antiche di secoli.
L’erosione di questa infrastruttura sociale è il risultato diretto di politiche governative orientate economicamente, mirate a riformare, accorpare e rendere più specializzata l’industria della pesca e non è vista dal governo poiché non compare nelle rilevazioni di chi concepisce e progetta la politica. Sono invece evidenti strada facendo periodi di povertà, di disperazione e di disfunzioni in costante aumento, sia per gli individui che per le comunità, causati dallo spostamento verso l’economia individualistica basata sull’avidità dove tutto ciò che ha un valore si può misurare in termini monetari e persino le transazioni sociali si riducono a calcoli di auto-potenziamento.
Queste dinamiche individuali e locali sono in relazione a ciò che sta succedendo a livello globale da qualche decennio. Il programma neoliberista e la sua ideologia individualistica orientata al mercato, uniti alla riforma delle infrastrutture rurali della Nuova Scozia hanno indebolito le basi culturali, economiche e collettive dell’economia del dono. L’ideologia del supporto a chi ha bisogno, caratteristica del welfare con la sua rete di sicurezza sociale, ha dato vita a una ideologia di individualismo e avidità. Le comunità rurali sono minacciate dall’istituzione di gerarchie. Globalmente sia tra le società che al loro interno, vediamo la reintroduzione di un’economia del dono mercificato che è parallela al crescente dislivello tra ricchi e poveri, sia tra le società e le comunità del mondo, sia al loro interno.
Conclusioni
Come in tutte le interpretazioni non dicotomiche, da questa analisi emergono sia elementi scoraggianti che elementi promettenti. L’atteggiamento negativo di Mary nei confronti del dono è un segno dell’ambiguo impatto della globalizzazione sulle vite e le comunità umane. La vasta ricerca sull’impatto negativo dei programmi di riforma sociale sulle donne nell’economia del sud rileva una storia simile. Gli attuali valori culturali del fondamentalismo economico danneggiano quelle caratteristiche della vita che non si possono ridurre al valore monetario o alla mentalità del baratto. L’atteggiamento di Mary nei confronti del dono è uno dei molti segnali che la vita e la cultura del Canada atlantico sono colpite in maniera pesante dalle politiche neoliberiste. La crescente presenza dell’individualismo, dell’avidità e della mercificazione della cultura e della storia rende sempre più difficile praticare un’economia del dono in questa regione – e persino descriverla.
Nel progetto neoliberista sono impliciti il patriarcato, il capitalismo e il colonialismo. Dato che i valori del patriarcato e del colonialismo (con le loro tesi dicotomiche, gerarchiche e egemoniche sulla vita – con la violenza e altri mezzi) continuano a mischiarsi con il capitalismo (con le sue tesi di sfruttamento e monetaristiche), possiamo vedere quanto sia facile produrre un individualismo strumentale, che sostiene machiavellicamente che il fine giustifica i mezzi. Se ci guardiamo intorno, possiamo vedere delinearsi un risultato logico – la compravendita di persone e parti del loro corpo; le nuove forme di schiavitù che emergono in varie forme gerarchiche – dalle figure dello sport a donne vittime di ignobili traffici. Il fine, il valore, in questo caso, è il denaro e la ricchezza. Nell’equazione neoliberista le donne, i bambini, gli uomini e l’ambiente esistono solo per essere sfruttati. Essa, e la vita a cui dà forma, sono basate su false tesi economiche.
La buona notizia è che quasi tutti sanno ancora che la suddetta visione della vita è parziale e avalla l’esclusione, anche se finge di essere completa e aperta a tutti. Quasi tutti possono ancora immaginare un altro mondo possibile basato su valori e azioni che davvero promuovano la vita e il donare – un mondo che ancora intuiscono, ma che è modellato da tesi diverse. Il fatto che sia già esistito e che non dobbiamo ricominciare da zero, è inoltre allettante. Le sue tracce sono lì, nei comportamenti materni e nelle pratiche collettive, specialmente in quelle parti del mondo che oggi vengono considerate marginali. Nel costituire cooperative, comunità, nel valorizzare il multicentralismo ed equilibri diversi, anche i femminismi globali contengono una simile speranza e visione.
Possiamo iniziare ponendoci queste domande: “Cosa considero più importante in questo mondo?” e “Quanto costa?” e poi chiediamoci: “Cosa costa di più al mondo?” e “Che valore darei a questo oggetto così costoso?” Condividendo con gli altri queste risposte, cominceremo a capire le diverse forme di ricchezza e le relazioni di dono che contraddistinguono il nostro universale essere umani e inizieremo a muoverci verso un altro mondo possibile.
Traduzione italiana dell’Anonima Network