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Capitolo ventesimo

Dare e amore

Credo che l'espressione "conoscenza carnale" sia una buona scelta. Gran parte della nostra esperienza interpersonale di amore e sesso ha a che vedere con il conoscere e percepire l'altro fisicamente e spiritualmente, secondo la "grana" donante e ricevente. Questa conoscenza richiede o favorisce un orientamento verso l'altro da cui in parte deriva l'esperienza di "perdersi", ben nota alla letteratura amorosa. In una società fatta a immagine e somiglianza del paradigma dello scambio, molti di noi hanno imparato a non essere orientati verso l'altro, evitando così che l'amore possa essere un'esperienza travolgente, un viaggio nell'economia del dono, un concentrarsi sull'altro, una possibilità di ripercepire il mondo, di ricreare una società umana a due.

Il modo in cui formiamo i nostri legami e le nostre relazioni reciproche riguarda le nuove percezioni di doni. Come Adamo che denominava le creature dell'Eden e ne parlava con Eva, noi diventiamo coscienti delle particolarità e universalità l'uno dell'altro, e diventiamo coscienti della consapevolezza reciproca che abbiamo di esse. L'amore altera la nostra attitudine individuale ri-volta all'orientamento verso l'altro, almeno per il momento. Cominciamo ad avere bisogno l'uno dell'altro e a voler dare l'uno all'altro. Cominciamo anche ad avere bisogno del bisogno che l'altro ha di noi, del nostro stesso darci, legandoci al desiderio dell'altro. Forse è proprio l'aspetto di orientamento verso l'altro dell'amore che ci porta a cantarlo, a parlarne, a desiderarlo tanto nella nostra società. "La giusta via è l'amore", dicono i predicatori e gli attivisti pacifisti; gli unici a non dirlo sono gli economisti (e i terapisti preoccupati della co-di-pendenza).

Una parte della nostra mente vera ci sta dicendo cosa fare e usa le nostre relazioni per dircelo. Suppongo che per questa parte sia difficile generalizzare, non sapendo che il suo stesso contesto è in realtà economico. Essa ci dice: "Dai, cambia l'Ego, nutri l'altro con abbondanza". Freud e scrittrici femministe come Nancy Friday, scoprendo che noi cerchiamo in realtà la relazione con le nostre madri negli uomini che sposiamo, hanno acceso un barlume di economia del dono che viene general-mente stroncato sul nascere.

I rapporti d'amore infatti, causando "orientamento verso l'altro", possono portare un uomo a praticare le cure più di quanto non abbia mai fatto, comportandosi come una madre farebbe con il proprio figlio ("Ti voglio bene, baby!"), soprattutto se la madre fosse abituata a vivere nell'economia dello scambio e avesse assunto i suoi valori. Il sentimento di beatitudine che viene dal darsi cure reciproche (facendo a turno – non scambiando – perché ognuno è orientato verso l'altro) è un'espe-rienza di economia del dono tra adulti, messa in risalto dal fatto che sono una società a due, e che la pratica del dono non è il sistema economico scelto dal mondo in cui vivono. Invece, la loro relazione può sembrare, ed è effettivamente, un angolino di beatitudine in un mondo diventato matto.

Come altri casi di economia del dono, questa società a due viene presto alterata nella sua natura e possibilità di sopravvivenza dal carattere estraneo dell'ambiente circostante. Come un fiore tropicale in un clima freddo, esso ha bisogno di circostanze particolari, di molto lavoro, premure, protezione, che alla fine fanno defluire il sentimento di calore e accoglienza così che la fragile pianta capisce (a ragione) di trovarsi in un ambiente sbagliato. Ma ancora una volta, questo non è un "difetto" dell'amore, bensì della penuria di amore e della penuria di beni create dalla mascolazione e dallo scambio in tutto il mondo. Più atti crudeli avvengono nel mondo, più ostile sarà l'ambiente per una relazione di nutrimen-to/cure tra due adulti.

Per riuscire a sopravvivere in una situazione di scarsità, gli amanti si adattano. Si dividono tradizionalmente il lavoro eterosessualmente: l'uno entra pienamente nel paradigma dello scambio, mentre l'altra continua a dare cure, seppure lavorando anch'essa nell'economia dello scambio. I loro Ego si alterano di conseguenza. Noi donne diamo i nostri doni migliori: diamo vita ai nostri figli, poi pratichiamo il paradigma del dono con loro perché ce lo impongono. Siamo costrette, per la loro reale dipendenza, ad adattarci alla modalità orientata verso l'altro. I compagni maschi accedono alla gerarchia della competizione per gli scarsi beni ma generalmente non hanno la salvezza psicoeconomica di dover dare cure ai figli. La partecipazione all'economia dello scambio diventa l'unica tecnica per la sopravvivenza e le donne, perciò, cominciano a rafforzare psicologicamente nei loro partner (e talvolta in loro stesse) le caratteristiche che li aiuteranno ad avere successo dove sono. Le donne rimandano il loro amore, mettono da parte il loro nutrirsi/dare cure reciproco, a un momento più opportuno. Alla fine, arrivano a pensare che l'esperienza dell'amore sia una co-sa infantile, un'illusione. L'amore ricorda loro, a ragione, l'infanzia, perché la relazione tra la madre e il figlio è l'unica esperienza importante di economia del dono che quasi tutti noi conosciamo.

Per il sistema della doppia responsabilità, molte donne svolgono sia il ruolo del dono sia quello dello scam-bio. Vengono pagate meno degli uomini per un lavoro paragonabile, non solo per dimostrare la loro inferiorità e l'inferiorità del paradigma del dono, ma anche perché continuino ad aver bisogno del denaro cui gli uomini provvedono loro con i frutti della loro attività economica di scambio. Questo sostegno sembra diventare una sorta di pagamento per i servizi che la donna svolge. In altre parole, il dare cure gratuito della donna, sia al compagno sia ai figli, viene "compensato" con il denaro che le dà il marito. Così la pratica di cure gratuita viene come racchiuso all'interno del paradigma dello scambio, che se ne impadronisce e lo riformula come scambio. Generalmente, però, il denaro che la donna riceve è appena sufficiente per comprare i mezzi di nutrimento/cu-re alla famiglia. In un ambito di scarsità, il lavoro gratuito delle donne sembra (e talvolta è) una specie di schiavitù. L'opposto della schiavitù potrebbe sembrare il lavoro retribuito, mentre invece dovrebbe essere la liberazione al dare gratuito in un ambito di abbondanza.

Dare nell'abbondanza è una scelta possibile per la gente ricca, dove il marito lavora nell'economia dello scambio per produrre denaro in abbondanza, e la moglie (che non lavora in quella economia) ha tempo di praticare il nutrire/dare cure su larga scala, svolgendo un lavoro volontario o opere di carità, cosa che anche il marito può fare. Sfortunatamente, la beneficenza di questo tipo mantiene lo status quo, alleviando i problemi senza modificarne le cause. Inoltre, il volontariato che dipende dal capitalismo patriarcale fa apparire la modalità dello scambio necessaria a sostenere la pratica del dono.

La beneficenza convalida la modalità dello scambio considerandola un suo requisito indispensabile. Anche gli esempi riusciti di marketing solidale hanno questo difetto. Dobbiamo piuttosto modificare l'intero contesto spostandoci al paradigma del dono per tutti, e dobbiamo usare i nostri doni per fare che ciò sia possibile.

Pur essendo psicologicamente positivo per qualcuno dare cure agli altri a partire da un ambito di abbondanza, nell'attuale situazione di penuria generalizzata la pratica del dono può apparire inusuale o addirittura essere vista come un atto pio. Questo può provocare fissazioni egoiste di vario tipo da parte dei donatori, e in una mancanza di rispetto nei confronti dei destinatari. Considerare il paradigma dello scambio e la sua logica alla radice del problema spersonalizza le azioni dei donatori e dei riceventi. La soddisfazione del bisogno non dovrebbe riprodurre lo scenario dell'abbiente e non-abbiente, migliore e peggiore; invece fa parte di una modalità più attuabile e umana, è un bene per la personalità e il benessere materiale del donatore e del ricevente, liberi dal-l'umiliazione e dalla fissazione dell'Ego sul difendere l'e-conomia dello scambio. È la cosa più logica e co-muni-taria da farsi.

I tipi d'impiego disponibili nella nostra società non permettono lo sviluppo della modalità e della mentalità del dare gratuito. L'intera società convalida la produzione di beni e servizi per lo scambio, e la valutazione degli esseri umani secondo lo standard monetario. Nell'ambi-to delle nostre relazioni personali, della nostra esperienza immediata, possiamo sperimentare le correnti sociali che scorrono attraverso di noi. Possiamo "dare" reciprocamente moltissimo di noi stessi, perché non lo stiamo facendo socialmente su un piano materiale. Chi possiede ricchezza materiale deve sentire almeno inconsciamente la spinta dei bisogni degli altri. Ogni giorno, gen-te che muore di fame ci osserva da dietro gli schermi televisivi; fuori dalle nostre case vediamo i senzatetto, ubriachi e infreddoliti.

Esiste una prospettiva vera, seppure cinica, sul dare, che dice: "Se darò tutto ciò che possiedo a un altro, questo sarà egoista tanto quanto lo sono stata io". Se si continua a convalidare il paradigma dello scambio, gli "abbienti" continueranno a opprimere i "non abbienti". Se una persona leggermente più generosa dà il proprio denaro a un'altra persona, è difatti possibile che que-st'ultima diventi più egoista. Il segreto è nel dare per cambiare il sistema e convalidare il paradigma del dono. Qualsiasi comportamento volto alla soddisfazione del bisogno, se attuato con consapevolezza del paradigma cui appartiene, contribuisce a questa convalida.

Il dare sessuale

Io penso che stiamo cercando di praticare il dare co-muni-cativo nei nostri rapporti d'amore, magari anche attraverso la promiscuità. Noi ci diamo sessualmente a chi sembra avere bisogno di noi, perché siamo spinti dal nostro subcosciente a dare mentre stiamo tuttavia vivendo nella scarsità materiale o siamo stati convinti che dare materialmente non sia una cosa da fare. Darci sessualmente ci permette di provare l'emozione di dare e ricevere direttamente "sulla nostra pelle"; ci permette di fare qualcosa per qualcun altro, soddisfacendo un bisogno senza trasferire concretamente i beni dall'uno all'altro. In effetti può essere molto imbarazzante dare e ricevere beni materiali mentre il dare e ricevere sessuale è convalidato come un desiderio "normale". Il sesso promiscuo ci permette di essere orientati verso l'altro rispetto a un certo numero di persone, dando loro su quel piano, mentre la società non ci permette di dare loro sul piano del bisogno materiale.

Nelle nostre relazioni interpersonali viviamo i problemi della società. Ad esempio, le donne danno troppo ai figli o continuano a dare ai mariti che le maltrattano. Io credo che inconsciamente sappiamo che il dare è la giusta via. Ciò che non vediamo è che spesso stiamo dando nel posto sbagliato e sul livello sbagliato, e che non possiamo praticare il dare concretamente finché esso non verrà convalidato socialmente come la modalità di comportamento al posto dello scambio. Penso che in effetti si fac-cia confusione tra il dare cure materiale e l'amore, e per questo pensiamo di amare qualcuno ogni volta che siamo orientati verso l'altro rispetto a lui/lei. Ogni bisogno che soddisfiamo sembra essere pratica del dono, anche se è il bisogno di ferirci di qualcuno che ci sta danneggiando.

Ma forse questo è dovuto alla confusione tra l'orien-tamento verso l'altro del sesso e dell'amore e l'orienta-mento verso l'altro materiale che si verificherebbe con una giusta pratica del paradigma del dono. Potremmo cominciare anche subito a praticarlo dando il nostro tempo, denaro ed energia per cambiare le strutture che ci opprimono. Se ci spostassimo al paradigma del dono, l'intera società sarebbe orientata verso l'altro e gli altri soddisferebbero i bisogni, e così ascolteremmo continuamente l'appello dei bisogni degli altri.

Ma in quel caso, molte altre persone starebbero soddisfacendo i bisogni, e perciò anche i bisogni dei nostri compagni potrebbero essere molto diversi da come sono adesso. Essere capaci di praticare l'orientamento verso l'altro materiale al di fuori delle famiglie e per il bene di tutti ci permetterebbe anche di avere un migliore orientamento psicologico verso i nostri amati. Ricevere dagli altri-in-generale come anche dare loro permetterebbe di legarci di più a essi, e noi non dipenderemmo dal sesso per una "co-muni-cazione" significativa. Abbiamo chiamato col nome giusto la ricerca di una vita "che abbia un significato". Questa è una vita in cui si attribuisce va-lore dando e ricevendo, ed è quello il motivo per cui le viene conferito valore.

È vero che siamo particolarmente dipendenti l'uno dall'altro nei nostri rapporti personali, perché è l'unico ambito in cui quasi tutti possiamo praticare il dare e ricevere e il paradigma del dono, anche se in modo imperfetto. È perciò il più "umano" dei nostri comportamenti, a cui diventiamo molto legati. L'abbandonarsi sembra essere una minaccia per la nostra umanità. Il dare e ricevere che pratichiamo sessualmente, che fa fiorire nei nostri corpi diversi bisogni mentre avanziamo soddisfacendoli l'uno per l'altro, crea un terreno comune per la comunità a due, a cui è difficile rinunciare.

I nostri io crescono attraverso questa comunità, così come crescono nella famiglia d'origine in cui ci differenziamo come individui sulla base del nostro terreno comune con gli altri. È più probabile che l'ego mascolato o basato sullo scambio abbandoni l'altro, che sia competitivo, che neghi il legame e l'intimità, e che usi l'altro perché rafforzi con il suo nutrire il senso della propria importanza. Sfortunatamente, la socializzazione degli uomini in opposizione alla pratica di cura permette che la comunità sessuale abbia questo tipo di distruttività. La seduzione e l'abbandono ("amale e poi lasciale") è la malattia del macho, anche se è talvolta la donna a lasciare l'uomo. Il desiderio di dominio – che è ben funzionale nell'economia competitiva dello scambio – si realizza nei rapporti personali con la forza, l'abbandono o le crudeltà mentali, come la denigrazione e la mancanza di partecipazione.

Il nutrire la competizione

I paradigmi del dono e dello scambio funzionano come due ambienti naturali che coesistono fianco a fianco, e ciò che è comportamento adattabile per uno è distruttivo nell'altro. L'ambiente della "sopravvivenza del più forte" viene considerato un sostegno per l'ambiente familiare di cure. Le famiglie più adeguate all'economia dello scambio sopravvivono. Ma questa è un'illusione, perché è proprio l'esistenza dell'ambiente competitivo che minaccia la modalità del dare cure e che la opprime fino all'esaurimento. In realtà è il nutrire/dare cure che sostiene l'ambiente competitivo, non viceversa. Ed esso non può essere eliminato senza che venga distrutto anche l'ambiente competitivo, perché la modalità dello scam-bio ha bisogno dei doni gratuiti per continuare a esistere.

Gli stessi competitori sono mantenuti da chi nutre/dà cure, e molti dei loro vantaggi vengono dal ti-po di nutrimento che hanno ricevuto; anche molti dei loro premi e ricompense vengono da chi nutre, incluse le stesse persone nutrici. Le donne belle o sexy, o anche le "buone mogli", vengono spesso considerate un premio per gli uomini di successo. A un livello individuale, nessuno di questi aspetti sembra legato al resto, e le interazioni sembrano dipendere dalle differenze, scelte o caratteristiche personali. Da una prospettiva più ampia, possiamo però rilevare che i due comportamenti sono strettamente connessi, uniti dalle catene della loro complementarità. Per quelli competitivi è vantaggioso che la relazione non venga considerata da una prospettiva che permetterebbe a quelli che nutrono di liberarsene in modo consapevole. Infatti, come molti parassiti, i competitori assumono un aspetto mimetico, e sembra così che siano loro a praticare il nutrire/dare cure.

Gli accenti di valore

I due paradigmi vengono distinti l'uno dall'altro anche perché la capacità di definire e le sue trasposizioni nelle attività di misurazione e conferimento del valore, che mediano la proprietà privata sostituendo una cosa con un'altra e che stabiliscono equivalenze tra diversi tipi di cose che dovranno essere scambiate, tutte vengono viste post hoc come cose appartenenti all'ambito della mascolazione.

Delle donne si dice che sono "immerse nell'esperien-za"; e in effetti si può considerare l'esperienza come una cosa che funziona secondo la grana donante nella modalità del dono. Esiste un senso in cui tutte le nostre percezioni ed esperienze arrivano a noi gratuitamente. Anche se dobbiamo talvolta impegnarci per avere un tipo di percezione piuttosto che un'altra (uscire dalla porta per vedere il tramonto), se i nostri sensi funzionano in modo corretto c'è sempre qualcosa di presente da percepire. La struttura della nostra immagine del mondo dipende dall'esperienza del passato e dalla pratica di un paradigma piuttosto che di un altro, come anche dagli "accenti di valore" che si trasmettono attraverso il linguaggio e la cultura.

Le donne vengono relegate dagli uomini in quell'a-spetto della vita relativo alle percezioni e alla materialità. Gli uomini ci descrivono, condividendoci come un loro terreno comune attraverso il linguaggio mentre noi siamo, secondo lo stereotipo, immerse nel "sentire". Ho parlato prima delle donne come coloro che stanno nell'"ombra", l'aspetto della mater(ia), e i molti. Abbiamo questo a cui fare ricorso; è al confine dell'economia del dono, così come il linguaggio è al confine dell'eco-nomia dello scambio.

Ma l'aspetto della mater(ia) e dei molti si perde nella nebbia, mentre al linguaggio si dà un'importanza prima-ria. Sotto la superficie del linguaggio e dei dati della percezione si nasconde l'attività gratuita svolta nei secoli, ossia il lavoro di mantenimento delle cose da parte delle donne, come anche tutto il lavoro tendente-verso-l'altro non retribuito dell'intera società. Tutti i doni gratuiti del passato determinano le cose specifiche che percepiamo, e cioè le parti della cultura materiale che hanno persistito nel tempo per costruire il nostro mondo. Potremmo anche considerarci noi stessi come doni dati da altri, e considerare i nostri figli come i nostri doni. I nostri io tendenti-verso-l'altro sono meno auto-similari di quelli mascolati, più "trasparenti"; abbracciano l'altro in modo schietto senza il filtro dell'Ego. Noi siamo i figli/e che ricordano le madri (e le madri che ricordano i figli/e e che vengono ricordate dai figli/e).

I nostri aspetti "maschile" e "femminile", almeno nella specificità con cui ci appaiono nella società occidentale, sono di fatto trasposizioni dell'Ego mascolato dello scambio e dell'io tendente-verso-l'altro quali prodotti e processi dell'economia dello scambio e dell'economia del dono. Visto che le due modalità economiche esistono fianco a fianco nella società, le strutture dell'Ego da esse promosse possono essere interiorizzate insieme. Questo crea un terzo tipo di struttura della personalità, che se anche può considerarsi come una transizione tra i due tipi di economia e avere alcuni dei vantaggi di entrambe, comporta diversi paradossi. Il nostro "donatore interno" forma legami rispondendo ai bisogni, e se i bisogni non possono essere soddisfatti possono sorgere forti emozioni. In contrasto l'Ego mascolato cerca invece l'indipen-denza e il dominio. Non è una coincidenza del tutto appropriata, né interiormente né esteriormente.

L'Ego mascolato e il contenuto dei suoi pensieri possono essere diretti al proprio guadagno o a quello della propria famiglia, come un'estensione di se stesso. L'Ego mascolato considera "oggettiva" la propria esperienza, priva del carattere di dono ma anche priva del dovere dimantenimento verso il proprio ambiente circostante. È meno consapevole dei bisogni dell'ambiente, dal letto non rifatto al bambino affamato alla discarica di rifiuti tossici. Impiega molto del suo tempo centrando l'atten-zione sul linguaggio, sulla burocrazia, sugli strumenti di tipo sociale o materiale per far fare cose agli altri, o perché gli altri diano così che lui possa ricevere. L'Ego mascolato ignora persino le cose che sono in lui; perciò i suoi bisogni devono essere soddisfatti da altri, come nello stereotipo del professore distratto. Senza una nutrice esterna, l'aspetto donante della sua personalità potrebbe alla fine doversi ribaltare e prendersi cura del proprio Ego mascolato. Così, le rimanenti parti orientate-verso-l'altro della sua personalità vengono rivolte all'"altro interno" e la persona diventa ancora più centrata su di sé.

Chi viene socializzato alla pratica del dare sviluppa un io che è già orientato verso gli altri, e l'aspetto che nutre/dà cure viene incluso come parte dell'Ego che si sviluppa nella partecipazione alla modalità dello scam-bio. Forse questo spiega la popolarità della terapia "pri-ma-io" tra le donne. Dai gruppi di co-dipendenza a quelli per promuovere la sicurezza di sé, la nostra società basata sullo scambio ci sta insegnando a mettere noi stessi per primi. Fortunatamente, visto che siamo state educate alla pratica del dono, la modalità del dono rimane parte dell'io che affermiamo. Potrebbe sembrare funzionale per lo status quo disfarsi della pratica del do-no, delle sue idee e ideali, ma l'economia dello scambio finirebbe distrutta se ciò accadesse.

Ci sono poi ovviamente dei casi patologici di orientamento verso l'altro, ma è molto più probabile che sia l'orientamento verso l'Ego a essere patologico. Social-mente, quest'ultimo sta avendo effetti nocivi su tutte le creature del pianeta, mentre viene elevato a modello di salute. Nessuno di noi ha il sospetto che stiamo facendo tutto questo perché non riconosciamo la pratica del do-no come un paradigma sullo stesso livello dello scambio. Dovremmo infatti affermare la paragonabilità dei due paradigmi, non l'uguaglianza dei sessi.

L'uguaglianza che deriva dalla mascolazione e dallo scambio è uguaglianza preliminare alla quantificazione, o uguaglianza quantitativa. L'essere diretti verso l'altro dà importanza alla varietà qualitativa. Paradossalmente, l'economia del dono produce più differenze individuali, perché non le misura secondo un unico standard di va-lore quantitativo. Se ci concentrassimo sull'economia del dono come paradigma, invece di umiliarlo e di circoscrivere le sue manifestazioni, potremmo anche usarlo per gettare luce su ciò che il paradigma dello scambio sta facendo. Potremmo leggere affermazioni quali: "Le donne sono altrettanto brave degli uomini", come metaaffermazioni che in realtà vogliono dire: "Il paradigma del dono va altrettanto bene (o è meglio) del paradigma dello scambio".

I giudizi

Tra le altre caratteristiche del paradigma dello scam-bio c'è la capacità di esprimere giudizi, mettendo una cosa in una categoria piuttosto che in un'altra. Come l'usanza matrimoniale per cui la donna acquisisce il nome del marito, le azioni e i desideri delle donne vengono giudicati dagli Ego mascolati come buoni o cattivi, appropriati o inappropriati ecc. Noi donne accettiamo questi giudizi degli altri per via del nostro (altrimenti positivo) orientamento verso l'altro. Per noi non è facile esprimere un giudizio sulle nostre qualità, anche se forse l'Ego interiorizzato può farlo al nostro posto. "Sarò intelligente? Sarò bella? Sarò brava?": possiamo preoccuparci all'infinito per queste cose, orientandoci verso l'E-go anche nel definire il nostro orientamento verso l'al-tro. La nostra capacità di vederci attraverso lo sguardo dell'altro ci fa cercare la definizione che lui dà di noi e ci porta a giudicarci come lui farebbe.

Mettendo in atto la definizione, come definiens noi serviamo il definiendum che l'uomo ha di noi cercando di meritare una sua parola positiva. Confondiamo il sottovalutarsi con l'"umiltà" e lasciamo che gli stereotipi ci guidino come profezie che si autoavverano. Assorbiamo interiormente la divisione tra le parole e le cose, tra la mente e il corpo, anche se, come partecipanti all'econo-mia dello scambio, possiamo vivere oggi questa divisione in modo un po' diverso. Le donne del passato rinunciavano al lavoro linguistico astratto, come la matematica o la finanza, perché non veniva considerato femminile. Persino oggi, dobbiamo batterci per meritare il giudizio di noi stesse, misurando il nostro valore su uno standard creato per le donne dagli uomini, dagli Ego mascolati per le donatrici.

Uno dei principi del dare è che esso non venga praticato per cercare ricompense. Così, se ci battiamo per es-sere giudicate dagli altri o anche da noi stesse come "brave" o "belle", stiamo sconfinando nell'area dello scambio. Gli altri possono anche giudicarci gratuitamente in modo positivo, e questo a noi sembra un dono per il quale dobbiamo essere grate. A volte riceviamo il dono del giudizio "brava" o "bella" anche se non ci siamo battute per esso. Aspiriamo a questo giudizio "gratuito" degli altri, per la difficoltà che abbiamo di rimanere interiormente nella logica del dono. Cercare di tenere fede ai nostri standard innesca una dinamica di auto manipolazione.

Forse l'autocritica ci permette di rivolgerci al nostro giudizio rimanendo nel paradigma del dono. Se ci puniamo per ciò che facciamo di "sbagliato", sembra che agiamo meno per una ricompensa che se dovessimo giudicarci "brave". Sembra che molte brave persone vogliano sfuggire all'ossessione dell'Ego. Può forse sembrare che, evitando il comportamento mascolato, potremmo mantenerci nel paradigma del dono. In realtà, seguire un paradigma piuttosto che un altro è forse determinato non dal dominio di sé o dalla manipolazione, ma da molte ripetute azioni, motivate in una direzione o nell'altra in diversi tempi e situazioni e su diversi livelli. I contesti esterni e interni determinano il successo e la validazione pratica di queste azioni.

Il bisogno che si abbia bisogno di noi

Noi donne cerchiamo forse di coltivare in noi le caratteristiche cui gli uomini darebbero valore, migliorando il nostro essere "attraenti" perché ci diano attenzione, perché usino i nostri doni e ci diano il dono del loro giudizio positivo su di noi. In effetti abbiamo sempre avuto l'incubo della "vecchia zitella", della donna i cui doni siano rimasti inutilizzati, magari per non essere abbastanza brava; e senza nessuno che abbia bisogno di lei. Abbiamo bisogno del bisogno degli altri per poter praticare l'economia del dono con loro, sia dando loro cure con diversi tipi di beni, sia "dandoci" a loro. Aver bisogno del bisogno dell'altro è stato screditato dalla nostra cultura, ma fa parte della perplessità creata dalla coesistenza di pratica del dono e scambio.

Ad esempio, le madri "asfissianti" protraggono troppo a lungo la cura dei figli. Queste hanno bisogno che si abbia bisogno di loro perché il loro dare è rimasto intrappolato all'interno della famiglia. Sono incapaci di trovare bisogni da poter soddisfare all'esterno della famiglia, o di rivolgersi agli "altri-in-generale" lavorando per il cambiamento sociale. Paradossalmente, in un ambito di penuria, c'è anche una penuria di bisogni cui i donatori possono avere un accesso che sia socialmente convalidato e "significativo". Se l'economia del dono fosse considerata una norma, tutti avrebbero bisogno di tutti.

In un'economia del dono, probabilmente alcuni tipi di interazioni specifiche e abituali si formerebbero sulla base del riconoscimento generale dei valori del paradigma del dono e delle strutture della personalità a esso connesse. L'accesso alle persone che hanno bisogni non verrebbe negato a chi ha la capacità e l'energia di nutri-re/dare cure, e il flusso di doni non si arresterebbe. Dare e ricevere non verrebbe più etichettato come "umiliante" ma diventerebbe un comportamento normale. La terra ci attrae a sé, l'acqua scorre lungo i pendii, i venti si spostano secondo la pressione atmosferica; anche nelle cose umane esistono una gravità e una pressione specifiche, che devono essere rispettate. Lo scambio funziona come un sistema di chiuse lungo un fiume, che fa salire l'acqua verso l'alto, allontanandola da chi ha i bisogni e dirigendola verso coloro che hanno già più che a sufficienza. Il nostro altruismo viene manipolato e rivolto contro di noi. Abbiamo un disperato bisogno di convalidare il flusso originario.

Anche nelle relazioni personali esiste una gravità, e anche su questo livello il flusso può essere alterato. Si comincia a contare sul nutrimento/cure di qualcun altro, interiorizzandolo come qualcosa che "meritiamo", considerandolo una ricompensa per la nostra buona azione di un certo tipo. Poi si afferma la validità di questo fondamento logico insistendo per essere nutriti/cu-rati nel modo in cui siamo abituati. Quando l'altro non lo fa per noi, lo facciamo noi per noi stessi, procurandoci o prendendo ciò di cui abbiamo bisogno o di cui crediamo avere bisogno, senza più rispettare i desideri del-l'altro. È fin troppo facile comportarsi così nell'econo-mia dello scambio in cui viviamo, perché questo tipo di atteggiamento è "normale". Se vivessimo in un'econo-mia del dono, manterremmo una situazione di orientamento verso l'altro, guardando ai bisogni degli altri e soddisfacendoli, ma anche confidando nel fatto che gli altri faranno lo stesso nei nostri confronti; e la struttura dell'ego mascolato non sarebbe necessaria.

Io credo che, in pratica, una tale fiducia ben riposta renderebbe più trasparente la nostra esperienza. Non esisterebbero tante paure, bigottismi e odi, perché non sarebbe necessario doversi continuamente difendere, sia dall'appropriazione violenta degli altri, dall'indifferenza e dalla manipolazione, sia dalla nostra stessa autocritica per aver fatto qualcosa agli altri "per la nostra sopravvivenza". In altre parole, non esisterebbero più le strutture artificiali che bloccano il flusso della compassione. Queste strutture provocano inoltre i timori, l'autocom-miserazione (l'orientamento verso l'Ego della compassione) e l'afflizione che bloccano la limpidezza dei nostri io e le nostre interazioni. Vorrei solo ribadire che io non credo che questi siano "colpe" della persona orientata verso l'ego, visto che è l'intero sistema del patriarcato a spingerla in quella direzione; i termini della colpa e del pagamento sono in realtà valori basati sullo scambio e perciò convalidano il paradigma dello scambio, anche se applicati a uno dei suoi difetti.

Sono invece le più ampie strutture sociali auto-simi-lari che convalidano la logica dell'ego mascolato a dover essere riconosciute come poco pratiche, obsolete e dan-nose. La mascolazione e le sue proiezioni esterne dovrebbero essere considerate modificabili e di fatto nocive per la società in generale, come anche per l'individuo. Praticando le cure verso chi possiede o è posseduto da un ego mascolato, possiamo renderci conto che questa persona ha in realtà bisogno di smantellarlo e di ricomporlo; che sarebbe più felice e più efficace senza di esso,perché sarebbe più orientato verso l'altro. È possibile creare un ambiente in cui l'orientamento verso l'altro sia convalidato e interiorizzato in quanto tale, e che non sia rivolto principalmente verso "l'altro interno" o il dominatore esterno o interno. Tutto questo sarebbe possibile se evitassimo di mascolare i nostri maschi e se cambiassimo il paradigma dello scambio con il paradigma del dono, convalidando i valori che la maggior parte delle donne (e molti uomini) hanno già.

La monetizzazione della manodopera non solo incarna alcuni dei processi della definizione, come la sostituzione e l'equivalenza, ma funziona anche come un giudizio sul valore di una persona per la società. Il denaro e il libero mercato ci misurano secondo uno standard che si suppone uguale per tutti e obiettivo, e per questo è an-cora più difficile sopportare se in base a esso veniamo giudicati negativamente, o se rimaniamo completamente esclusi dall'economia monetizzata. I salari delle donne, essendo più bassi di quelli degli uomini, ci definiscono negativamente come "meno" degli uomini, in partenza. L'esemplare economico del giudizio in funzione del salario ha quindi un risvolto su altri tipi di giudizio, e rafforza il loro potere su di noi. Noi ci misuriamo e ci motiviamo in base a uno standard monetario, influenzando il nostro giudizio di noi stessi e degli altri in quanto bravi, intelligenti, efficienti ecc.

Questi giudizi sembrano venire da un qualche standard esterno per il quale il valore è valutato "obiettivamente", e che ben si concilia con la valutazione quantitativa dell'ego mascolato. Siamo una società ossessionata dalle valutazioni, dalle classificazioni nelle scuole al conteggio delle calorie, dai notiziari sul tempo ai test psicologici. Ci sottomettiamo ai test e lasciamo che la valutazione domini il nostro comportamento. Persino nel nostro inti-mo esame di coscienza ci giudichiamo e ci dominiamo con l'autovalutazione. Gran parte dei movimenti per l'au-tostima sono volti a contrastare gli effetti totalmente negativi del dominio attraverso l'autovalutazione negativa.

È chiaro che diamo valore ai criteri e ai giudizi, se ci sottoponiamo a essi; l'autoritarismo parentale, la moralità e la religione sono concepiti per farci dare questo tipo di valori. Ma se non lo facessimo sarebbe molto più difficile per gli altri dominarci, soprattutto psicologicamente.

Si è creato una sorta di sistema di scambio secondario, nel quale noi ci battiamo per il riconoscimento. Sottoponiamo alcune nostre azioni all'esame attento degli altri, e il giudizio che essi ci danno è la nostra ricompensa. Persino il dare viene spesso praticato con questa idea. Aspiriamo ai giudizi di altri che ci dicano "bravo" o intelligente, o capace; poi, dopo averli ricevuti, li usiamo per formare le nostre identità, i nostri concetti dell'io.

Dare o rifiutare questi giudizi, e dare un giudizio negativo, sono i modi in cui alcune persone hanno potere su altre. Uno dei motivi che ci portano a voler ricevere una definizione positiva dagli altri e ad attribuirle tanta importanza, è lo schema fondamentale del giudizio in base al salario, che è a sua volta influenzato dallo schema fondamentale della determinazione del prezzo dei prodotti. Anche i nostri rapporti d'amore seguono spesso questi schemi. Ognuno di noi viene "valutato" da chi ci ama, scelto perché "migliore" di altri "prodotti" o "impiegati" simili (adesso gli economisti parlano addirittura di "mercato dei matrimoni"). Non dovrebbe essere così; siamo troppo influenzati dagli archetipi inconsci dello scambio, mentre saremmo molto più felici senza di essi.

Talvolta interiorizziamo il processo di valutazione e giudizio, dominandoci secondo i valori della società o secondo i nostri valori personali. Mediante questa attività interiore, che sia per il dominio o l'accettazione di sé, confermiamo noi stessi in quanto "bravi" ecc. La moralità segue queste stesse linee, inducendo alla "giusta condotta" in un ambito basato sullo scambio. Incapace di risolvere realmente i problemi esistenziali o di spostare il paradigma socialmente, la moralità, come la beneficenza, fa buon viso a cattivo gioco. Probabilmente salverà individualmente chi la pratica, facendolo diventare "buono" invece che "cattivo"; ma costui sarà comunque incoraggiato a concentrarsi sulle proprie qualità, rimanendo così orientato verso l'Ego, senza minacciare il paradigma.

Il "prezzo" del non praticare le cure e del non dare valore al dominatore può anche essere la violenza fisica. Il "dono" viene così forzato, e diventa come il "dono" del lavoro di uno schiavo. Per secoli, nel corso del patriarcato, la gente è stata costretta in situazioni in cui la violenza era la punizione per non aver dato. I molti vengono puniti dagli uni o dalle gerarchie per inadempienza o ribellione; l'obbedienza diventa perciò un'abilità necessaria alla sopravvivenza.

In una tale situazione, l'espediente temporaneo della generosità personale può sembrare l'unica risposta con-creta alla sofferenza. Quando però si pratica il dare individualmente, non sembra che si stia proponendo un modello sociale percorribile e non si offre quindi una soluzione al problema generale, che deve invece avvenire su una scala più ampia. Molti degli individui che nutro-no/danno cure vorrebbero forse cambiare i paradigmi sociali; ma il problema è che non vedono le cose in questi termini né sanno come ciò sia possibile.

I movimenti contro la violenza sessuale e domestica hanno coordinato attività di cure individuali per un cambiamento sociale al livello della famiglia. Non stanno an-cora sfidando altri aspetti del patriarcato, come la violenza ambientale e internazionale, anche se stanno accentrando l'attenzione su un problema importante; stanno praticando i valori delle cure, e sono organizzati. Altri movimenti per un cambiamento sociale, i movimenti per la pace, per l'ambiente, per la giustizia economica e per la liberazione dei popoli stanno svolgendo attività importanti per un cambiamento sistemico, ma generalmente non indicano gli schemi patriarcali come problema di fondo, né i valori delle donne come soluzione al problema.

Si possono fare considerazioni simili sul tipo di soluzioni proposte dalle strutture governative: nonostante i buoni propositi, che a breve termine possono anche esse-re funzionali, queste si stanno muovendo a partire dalle fondamenta dello scambio. Ad esempio, il richiamo alla responsabilità individuale contro la dipendenza, che mira a eliminare l'assistenza sociale integrando le persone al mercato, è una soluzione che aggrava il problema, enfatizzando gli stessi valori che lo hanno provocato. La pratica del dono, così come viene svolta dallo Stato paternalistico, è umiliante e inefficace. La colpa viene erroneamente attribuita all'atto del ricevere, che viene considerato passivo e stupido, denigrato come una cosa praticamente subnormale. Il dare-e-ricevere creativo viene in questo modo sostituito dall'integrazione individuale allo scambio e dal rafforzamento dei valori capitalistici mascolati.

L'altruismo individuale può forse offrire un modello di pratica del dono, estendendo il proprio campo d'in-fluenza a un gruppo più ampio. Ma pur essendo un tentativo di giungere alla radice del problema, è solo un modo di vivere all'interno del paradigma dello scambio, che contribuisce a un certo grado di sanità mentale e a un comportamento di aiuto verso gli altri ma senza cambiare niente radicalmente. La compassione, la beneficenza e la moralità, se praticati soltanto come approcci individuali, non portano a uno spostamento di paradigma, che è invece necessariamente un processo collettivo.

Per questo è importante vedere la presa di coscienza delle donne – del movimento internazionale delle donne – alla luce del paradigma del dono. Il paradigma del do-no è già nei valori di cura delle donne, e quando le donne convalidano individualmente i propri valori (non quelli del patriarcato), fanno già parte di una collettività di oltre il 50 per cento dell'umanità. Il paradigma del dono è profondo, molto esteso e non riconosciuto. La mascolazione avviene presto nei maschi, ma le donne assumono i valori della mascolazione più tardi, nel vedere il mondo con lo sguardo dei loro "altri", cioè di quegli umani che la società ha alienato da noi e che noi nutria-mo in eccesso.

Prendendo coscienza dei nostri valori orientati verso l'altro in quanto paradigmatici, le donne che lavorano per un cambiamento sociale possono liberare tutti noi dai valori della mascolazione che si sovrappongono ai valori delle cure. Proponendo il paradigma del dono come una modalità umana per tutti, possiamo anche liberare gli uomini e l'intera società dalla sala degli specchi del paradigma dello scambio. Gli uomini e le donne possono riconoscere il carattere estraneo e inutile della mascolazione, fare un passo indietro e smantellarla in modo non mascolato e non violento. La transizione verso un sistema diverso può risultare facile, perché il sistema alternativo non deve essere inventato da zero; esso esiste già, nella pratica del dono svolta da metà dell'u-manità e che forma la matrice nascosta dell'altra metà.

Riportare l'umanità alla madre

Il tipo di orientamento verso l'altro funzionale alla cura dei figli è interattivo e diverso dalla moralità che cerca di imporre la "giusta azione" e i "giusti comportamenti" sugli altri o su di sé. La moralità può anche sconfinare nel nutrire/dare cure, soprattutto quando è difficile soddisfare i bisogni a causa della scarsità o delle pressioni: in tempi difficili, è possibile doversi "forzare" ad agire in modo orientato verso l'altro nei confronti del figlio o dell'altro, assumendo cioè il nutrire/dare cure come una questione morale.

I filosofi reazionari e macho hanno interpretato il le-game madre-figlio come "naturale". Dare valore ai bisogni dell'altro non è "naturale" in senso irrazionale, manon fa neanche parte della moralità basata sulle regole. È un principio sui generis – di un tipo specifico in sé – che può non essere riconosciuto in quanto tale perché non contiene in sé quegli elementi dell'ego auto-riflettenti mediante i quali di solito riconosciamo qualcosa come un principio, o come "re-ale", perché il nostro pensiero avviene tanto spesso nell'ambito della modalità mascolata.

Se i nostri ego e le nostre interpretazioni filosofiche della re-altà sono orientati verso l'ego e sono prodotti dallo scambio e dalla mascolazione, le cose non orientate verso l'ego che facciamo rimangono fuori del loro ambito; non diventano coscienti, o almeno non allo stesso modo. L'egoismo è strumentalizzato così da costringerci a dare valore a ciò che può essere utile ai suoi scopi, e non ad altre cose. Esso vede riflesse le proprie strutture, e definisce "reale" questa visione familiare, mentre le cose che non hanno quella impronta sono estranee, irrilevanti, irreali. L'Ego auto-similare è un po' come un animale che marca il proprio territorio con l'urina, e poi lo riconosce come proprio. Nella pratica del dono, non siamo impegnati di solito a marcare il nostro territorio, ma a provvedere al benessere dell'altro su un qualche livello.

Se il linguaggio è basato sulla pratica del dono, questa non può essere considerata prevalentemente pre-ver-bale e infantile. Se potessimo aggiungere al linguaggio altre manifestazioni di pratica del dono, come il sogno, l'arte e l'attività volta al cambiamento sociale, vedremmo cominciare a emergere il dare come il massimo principio non riconosciuto della specie umana. Dobbiamo capire che la Madre è per-donante e che sia gli uomini sia le donne possono esserlo; e che lo scambio – scaturito dal processo di denominazione e definizione – non lavora per soddisfare i bisogni dei molti. È soltanto assumendo il principio della Madre – non in quanto biologico o istintivo, ma come una pratica umana cosciente e creativa – che saremo in grado di soddisfare i diversi bisogni materiali e culturali dei 5 miliardi e mezzo di per-sone che vivono oggi in tutto il mondo.

Ciò che dobbiamo fare adesso è portare la modalità del dono alla coscienza orientata verso l'Ego, per rivelare la sua convenienza per tutti. Ciò è possibile guardando alle cose a partire da un meta-livello, con una prospettiva globale, e nei termini di una totalità. L'interesse dell'ego e l'interesse per l'altro coincidono infatti sul livello globale. La sopravvivenza del pianeta (interesse per l'altro) coincide con la sopravvivenza dell'ego individuale e anche dell'intero sistema complementare di scambio-e-pratica-del-dare. Se siamo tutti destinati a perire nella distruzione del pianeta, ognuno di noi può dare la propria energia per risolvere i problemi che stanno portando alla sua distruzione, comunque sia orientata la nostra motivazione, verso l'ego, verso l'altro, o verso una combinazione di entrambe le cose. Per chi è orientato verso l'ego, questo è un momento di transizione verso la pratica del dono. Da un meta-punto di vista, che tiene conto di entrambi i paradigmi, possiamo tutti optare per uno spostamento di paradigma. Questo è il principio della soluzione.

Io credo che le pratiche spirituali che fanno appello alla singolarità di ognuno di noi stiano cercando in realtà questo meta-livello, mentre impostano la loro ricerca in termini che si richiamano alla superiorità dell'u-no in opposizione ai molti. Pur proponendo un uno inclusivo – e l'inclusione è un aspetto della logica del do-no – non si concentrano sulle effettive dinamiche patriarcali tra l'uno e i molti.

Da un punto di vista più globale, è possibile include-re entrambi i paradigmi sullo stesso livello d'importan-za. Il paradigma dello scambio auto-riflettente non è più importante del paradigma del dono, anche se la sua forma auto-similare crea questa illusione. Il paradigma del dono può costituire da solo la logica del comportamento umano. Guardando a entrambi i paradigmi da una prospettiva più ampia, reintroducendo il criterio della competizione tra i paradigmi – che non è contraddittorio perché sta avendo luogo su questo livello "superiore" – possiamo constatare che il paradigma del dono ha la meglio, in quanto sistema umano più funzionale di pensare e di agire.

Possiamo smettere la nostra lotta individuale per diventare esemplari e lasciare che sia il paradigma del do-no a diventare l'esemplare del comportamento umano. Se poniamo fine alla mascolazione, allora il linguaggio, la definizione e la denominazione, liberi dalle loro incarnazioni auto-similari, potranno portare avanti la mediazione creativa delle soggettività e delle culture umane in un mondo in cui la pratica del dono materiale sia la norma. Se analizziamo e capiamo abbastanza bene lo scam-bio, l'Ego e i suoi elementi, possiamo conservare eventuali loro aspetti che siano utili per tutti. Nello stesso modo in cui potremmo usare alcune tecnologie in modo pacificamente ed ecologicamente sano per fornire i mezzi per nutrire/dare cure a tutti in abbondanza, possiamo forse decidere di mantenere alcuni elementi dello scam-bio e della coscienza orientata verso l'ego per provvedere ad alcuni tipi di attività utili e ad alcune parti della struttura della nostra personalità.

Reinterpretare la moralità come un comportamento che può creare la transizione verso il paradigma del do-no suggerisce che dovremo agire secondo l'orientamen-to verso l'altro e il dare vita e promuovere la consapevolezza di questo comportamento come paradigmatico1.

Amore condizionato e incondizionato

La moralità non funziona in modo efficace, e questo per via degli schemi di dominazione che permeano le sue regole. Un dono forzato sia dall'esterno sia dall'interno perde molti degli aspetti positivi del dono. Noi ci mettiamo inoltre in una posizione tale da poter essere manipolati. Come nella mascolazione o nella definizione in base al denaro, noi dipendiamo in larga misura dal giudizio degli altri. Vorremmo soltanto che le nostre azioni fossero misurate e valutate nel modo giusto. Nell'amore, potremmo cercare forse di fare in modo che gli altri siano orientati-verso-l'altro nei nostri confronti invece che es-sere noi orientati-verso-l'altro nei loro confronti; alcuni tipi di giudizi positivi su di noi sembrano renderlo possibile. Ad esempio, sollecitiamo i giudizi positivi degli altri rendendoci belli; poi li amiamo perché loro ci amano. Così, abbiamo con loro la stessa attitudine che abbiamo verso di noi amando noi stessi: la parte di noi che ama il nostro Ego basato-sullo-scambio. Nelle nostre relazioni con noi stessi e con gli altri, interiorizziamo ed esteriorizziamo le relazioni tra i paradigmi.

Nella nostra società crivellata di terapie di vario tipo si parla molto dell'amore incondizionato. Ciò che i terapisti hanno scoperto è forse la qualità curativa dell'amo-re come dono orientato-verso-l'altro, in una società del-lo scambio, dove gran parte dell'amore che viene dato è strutturato secondo il ricatto e il baratto, "dato" secondo il principio se/allora. Coloro che si amano al di fuori del paradigma dello scambio possono considerarsi messaggeri di un mondo migliore.

I bisogni urgenti di chi ci è vicino possono richiamare il dono dell'amore incondizionato. La tragica epidemia di AIDS ha stimolato molta pratica del dono senza attaccamento. I movimenti contro gli abusi infantili, le aggressioni, la dipendenza dalle droghe, per la pace, l'ambien-te, e i movimenti anti-nucleare, i movimenti per la liberazione dei popoli, richiedono tutti ore di dedizione sconfinate, un grande impegno di energia vitale e d'inventiva.

"Liberare" gli altri dalla nostra attenzione (come suggeriscono i maestri del pensiero positivo) funziona perché assicura la continuazione dell'orientamento-verso-l'altro nei confronti di qualcuno senza che debba esserci un qualche ritorno da parte sua. D'altra parte, una posizione tanto estrema come l'amore unilaterale non sarebbe necessario se la società non fosse distorta tanto profondamente dallo scambio. Il dare e ricevere attivo, il fare a turno, è un comportamento appropriato tra due persone (come anche tra loro e il resto della società) e può avere luogo senza implicare necessariamente il dare allo scopo di ricevere.

È solo dopo essere stati tanto feriti dallo scambio e dalla dominazione da non avere più fiducia negli altri, che abbiamo bisogno che gli altri ci amino unilateralmente e incondizionatamente. Ma è probabile che vedremmo con diffidenza anche questa soluzione, visto che i terapisti, come anche la società e i nostri genitori, ci hanno insegnato che è sbagliato ricevere senza dare niente in cambio. Vorremmo l'amore come dono incondizionato, ma ci è stato insegnato che lo scambio è l'unico modo rispettoso e umano di comportarsi, perciò potremmo sospettare che l'amore come dono sia in realtà un trabocchetto, la prima mossa di uno scambio in cui ci siamo ritrovati senza volerlo (ci hanno amato senza che noi glielo chiedessimo!) e che non potremmo mai "ripagare".

Essere genitori

Molte delle nostre pratiche relative all'essere genitori sono barbariche. Facciamo obbedire i figli minacciandoli di abbandono o malmenandoli, insegnando in questo modo lo scambio e il ragionamento condizionale se/allora: "Se farai questo, potrai avere quest'altro"2. Facciamo in modo che i figli diano valore a noi e alle nostre parole, secondo la nostra volontà. In questo ca-so, la rinuncia della volontà e la soddisfazione del bisogno dei genitori di essere obbediti sono imitazioni grottesche del nutrire ed essere nutriti.

Anche da adulti, la minaccia dell'abbandono ci perseguita. La società fa con noi la stessa cosa che hanno fatto i nostri genitori. Lo spettro di rimanere senza casa, soli e senza un impiego, incombe su ogni casa, posto di lavoro, famiglia e individuo. C'è una minaccia costante di scarsità d'amore, come anche di scarsità di denaro e di beni di nutrimento. Nella nostra società orientata verso lo spreco, secondo il modello del prodotto per il qua-le non esiste nessun mercato o che viene usato appena dal ciclo accelerato di produzione-scambio-consumo, potremmo improvvisamente ritrovarci scaricati su un mucchio di spazzatura. Rigettati dalle categorie privilegiate del mercato, veniamo messi nelle pattumiere del tempo e dello spazio. Una tale situazione influenza gli ego sia "maschili" sia "femminili", intimidendoli in una posizione di dominio o sottomissione, facendo loro seguire il modello di don Giovanni di dominio uno-molti del denaro o il modello del prodotto utile della Super Mamma, per paura di essere scartati o abbandonati.

Sfortunatamente, le immagini falliche e i modi fallici rafforzano in ogni momento l'Ego mascolato nella nostra società. La mancanza di rituali e di attività significativi al di fuori di questi schemi mette in luce gli schemi della mascolazione. Ogni cosa, dall'esercito all'economia di sfruttamento, integra l'idea di mascolinità con quella di aggressività. Gli adolescenti maschi imparano a dominare gli altri ostentando grosse macchine falliche o mol-te fidanzate; le adolescenti femmine imparano a prestare attenzione alle grosse macchine e alla possibilità di esse-re sedotte e abbandonate. Dal missile al numero 1, dalla Trump Tower alla torre d'avorio, l'immagine fallica au-to-similare attira l'attenzione su di sé, creando rituali cristallizzati con i quali tutti nella società possono continuamente relazionarsi secondo la loro posizione o ruolo specifico. Dato che questi oggetti sono presenti nella vita di tutti i giorni non riconosciamo il loro continuo potere, ma in ogni momento il nostro comportamento e le nostre motivazioni ne subiscono inconsciamente l'in-fluenza.

Praticare lo scambio per poter praticare il dare è il compromesso o ibrido tra i due paradigmi che propone la società. Ma se diamo allo scopo di ricevere economicamente è più probabile che poi facciamo lo stesso nelle nostre relazioni. Quando soppesiamo lo scambio emotivo e sentiamo di non aver ottenuto abbastanza, ci sem-bra più ragionevole rinunciare, per non essere autodistruttivi. Il nostro compagno può non contribuire abbastanza in casa, talvolta monetariamente, oppure non dare abbastanza emotivamente, o andare con altre, e perciò non "scambiare" con noi. I terapisti e gli amici aiutano a valutare le azioni giuste o sbagliate del compagno, misurando l'opportunità che si rimanga attaccati a lui.

Nelle relazioni basate sulla pratica di cura, il dare è un dato in sé, che assicura uno spazio per entrambi, lasciando un maggiore margine di sviluppo. L'attrazione sessuale suscita moltissima attenzione da parte dell'altro. Ciascuno "investe energia" nell'altro, poi vuole dargli nutrimento/cure ed essere ricevuto da lui/lei. Io credo che in realtà quasi tutte le relazioni comincino col dare e che poi, non appena cominciano a capitare cose negative, irrompa il ragionamento dello scambio: il donatore comincia a voler essere un ricevente e a calcolare quanto ha dato; "stabilisce dei limiti", soprattutto quando vede che non può continuare a dare così e che deve paradossalmente passare alla modalità dello scambio per poter continuare a dare.

Agendo secondo il paradigma del dono, co-muni-ca-re materialmente ci rende più suscettibili di continuare ad amare unilateralmente. Forse è per questo che tante donne continuano ad amare, a mantenere i figli che gli uomini abbandonano, e a rimanere fedeli persino al marito donnaiolo. Anche in un ambiente ostile, l'economia del dono si auto-perpetua, almeno per un po'. Se praticassimo il dare in abbondanza – non solo in casa, ma socialmente, come un modo di organizzare la nostra economia e le nostre istituzioni – le nostre relazioni umane migliorerebbero e i nostri conflitti interiori sarebbero più facilmente risanati.

1 In questo modo potremmo riconsiderare l'imperativo categorico kantiano così da poterci chiedere non solo se il principio (il paradigma) che sta alla base delle nostre azioni possa essere generalizzato, ma anche in modo tale da poter diventare coscienti della sua generalità e istituzionalizzarla. Il paradigma dello scambio non può essere generalizzato come modalità di comportamento per tutti, perché ha bisogno dei doni dei molti per poter funzionare. Richiede, cioè, che molti pratichino il paradigma del dono verso di esso. Chi vuole estendere il "libero" mercato a tutti non prende in considerazione questo fatto.

2 Russ Rymer ha descritto il caso di una bambina "selvaggia" priva di linguaggio. Il libro di Rymer (1993) dimostra la scarsa pratica del dare ricevuta dalla bambina. In primo luogo, come vittima d'isolamento e abuso da parte dei genitori, poi come pedina degli interessi accademici burocratici, era altrettanto lontana dal nutrire/dare cure che Victor of Aveyron, che un secolo prima aveva subito il severo autoritarismo di Jean-Marc Itard. Genie era in grado di categorizzare, ma non imparò mai la sintassi. Aveva una stanza piena di contenitori, secchielli di sabbia e bicchieri di plastica: a me sono sembrati analoghi alle categorie della parola senza doni. Credo che l'idea di "appartenere a" o di proprietà non fosse sufficiente per apprendere il linguaggio. Ave-va bisogno della co-municazione di nutrimento/doni prima del linguaggio. Non partecipava abbastanza al dare e ricevere esterno allo scambio per essere in grado di generalizzarlo alle relazioni nel linguaggio e per attribuire valore come gli altri. Rymer sostiene che anche dopo essere stata liberata dalla cattività, la bambina fu usata come cavia da esperimento da chi si "prendeva cu-ra" di lei. Genie raggiunse lo "stadio chiave" di sviluppo, ma non poté andare oltre; non sapeva proiettare le relazioni di dono in parole. Le incapacità di Genie mostrano il difetto dello scambio: per lo scambio, la categoria è più importante dei contenuti. Inoltre, gli umani (soprattutto i maschi mascolati) sono valutati per ciò che hanno e per ciò con cui si suppone siano nati: il genere maschile, l'anima, una personalità, un'identità e (ritengono alcuni) il linguaggio; mentre invece la pratica del dono costruisce queste "proprietà". A Genie non fu dato gratuitamente e, perciò, non conobbe il modello del dare gratuito con il quale avrebbe potuto dare valore orientato-verso-l'altro ai contenuti delle categorie o costruire linguisticamente il proprio io sociale.


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