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Capitolo sesto

Le categorie "marc-siste"


La co-muni-cazione crea l'inclusione mutua dei comunicatori, riguardante tutte le diverse parti del loro mondo. Denominare i generi divide sin dall'inizio i comunicatori in due categorie opposte, che si escludono a vicenda, contraddicendo l'inclusione mutua della comunicazione. Come i due modelli opposti del dono e dello scambio, i generi entrano in una sorta di complementarità, benché non stiano insieme in modo esatto. Sopravvalutare la dominazione rende difficile sia l'inclu-sione mutua sia i legami connessi con il dare e il ricevere creativo. Alcuni sviluppi bizzarri, come considerare il dominare e il sottomettersi come inclusione mutua, possono sembrare talvolta la soluzione definitiva della contraddizione; donare al dominatore può strutturarsi in un modello permanente, come nel caso dei cosiddetti "va-lori della famiglia".

Nella distinzione dei generi, gli aspetti del linguaggio che riguardano il donare e il "cedere il passo" vengono così identificati come comportamenti propri delle femmine biologiche, mentre gli aspetti della sostituzione e della categorizzazione vengono assegnati ai maschi. Questi due ruoli si sviluppano alla fine in pratiche di cu-ra "svuotate di potere" da una parte, e in dominazione/scambio dall'altra. L'aspetto di esclusione reciproca tra i generi viene dal linguaggio stesso, nel quale "femmina" e "maschio" sono legati da un rapporto di opposizione diretto1. Così, per sviluppare un comportamento che si suppone appropriato per il portatore del termine che identifica il proprio genere, basterebbe osservare il comportamento dell'altro genere e fare semplicemente l'opposto.

In uno dei primi saggi sugli universali del linguaggio, Joseph Greenberg (1966) discute di categorie linguistiche "marcate" e "non marcate", che si riscontrano al livello fonologico, grammaticale e lessicale di termini in opposizione. Ad esempio, termini quali "basso" e "alto", "largo" e "stretto", "su" e "giù" rappresentano gli estremi opposti di un continuum; uno di questi opposti è generalmente la norma linguistica. Nella domanda "How old is the girl" ("quanti anni ha la ragazza") e non "how young ("giovane")", "old" è la norma, ciò che i linguisti chiamano termine "non marcato". Secondo Greenberg, man ("uomo") è il termine "non marcato", mentre woman ("donna") è "marcato". A mio parere, le espressioni meta-linguistiche "marcate" e "non marcate" sembrerebbero invertite: il termine più generale e più inclusivo dovrebbe essere infatti "marcato" (e richiamare così la nostra attenzione), mentre il meno inclusivo "non marcato"; invece, mentre il termine di minore rilevanza ha un "segno" aggiuntivo, che può essere un prefisso o un suffisso, il termine di maggiore rilevanza, chiamato "segno zero" non ha alcuna aggiunta. Ad esempio, in inglese il plurale si forma aggiungendo al singolare una "s", ma il "plurale" è la categoria "marcata", e il singolare "non marcata". I termini stessi che designano le due categorie hanno un significato curiosa-mente invertito: "marcato" (marked) non è marcato, mentre "non marcato" (unmarked) è marcato.

Greenberg cita l'articolo di Jakobson che definisce la distinzione: "Il significato generale di una categoria "marcata" attesta la presenza di una determinata proprietà ‘A'; il significato generale della categoria "non marcata" corrispondente non attesta nulla circa la presenza di ‘A' ed è utilizzato principalmente ma non esclusivamente per indicare l'assenza di ‘A'". Poi Greenberg prosegue, aggiungendo: "Dunque, seguendo la teoria di Jakobson, ‘donna' attesta la presenza della categoria ‘marcata' ‘femminile', mentre ‘uomo' è utilizzato principalmente ma non esclusivamente per indicare l'assenza di ‘femminile'".

Tale analisi è "contro-intuitiva", per le donne che hanno imparato alla "dura scuola della vita" che l'essere uomo costituisce la proprietà rilevante ed è proprio la mancanza di tale caratteristica a definirci come donne. Greenberg afferma ancora che "‘uomo' ha due significati: indica sia l'assenza esplicita di ‘femminile' nell'ambito del significato ‘essere umano maschile', ma anche l'‘esse-re umano in generale'". Secondo Greenberg, dunque, il termine che indica l'assenza del "femminile" include il "femminile" stesso laddove esso viene usato in termini generali. Le donne sono incluse, mentre il "femminile" è esplicitamente indicato come assente.

Mi diverte fantasticare che se gli uomini e le donne fossero parole, gli uomini sarebbero il termine "marcato", con il prefisso del fallo – perciò, secondo questa teoria, di minore importanza, differenti –, mentre le donne sarebbero il segno "zero", senza alcun prefisso, perciò di maggiore rilevanza e rappresenterebbero dunque la norma. Se è vero che "uomo" è definito in funzione dell'as-senza della proprietà femminile, che cos'è questa "proprietà"? La proprietà delle donne non è altro che l'assen-za della proprietà distintiva, della "marca" ed è (anche) l'assenza di proprietà nel senso di proprietà privata. Le donne sono perciò la norma, in quanto "esemplari" mancanti e non accettati della specie umana.

È sulla base dell'assenza dell'esemplare femminile che gli uomini definiscono se stessi e definiscono l'uma-nità. Il fallo sarebbe il doppio negativo: l'assenza dell'as-senza. (Jacques Lacan parla di "mancanza della mancanza"). Non deve stupirci che tanto i bambini/e quanto i linguisti siano confusi/e. E il termine stesso wo-man ("donna") non è altro che man ("uomo") con l'aggiunta di un prefisso, il quale nasconde probabilmente il fatto che la madre ne è in realtà fisicamente priva. La differenza, il suo non avere una "marca" (della donna), viene visto come la sua (di lei) differenza, come una mancanza rispetto alla norma alla quale il bambino maschio è invece simile. In tal senso, il termine mankind ("l'uomo, l'u-manità") illustra bene il problema. Prendendo il fallo quale "marca" degli uomini e gli uomini quali "esemplari" della specie, le donne appaiono "in difetto", membri (sic) di un genere inferiore.

Lo stesso essere norma è diventato una caratteristica propria del genere maschile e il fallo è diventato una "marca" della norma, paradossalmente, dal momento che la norma è marcata. Il termine "maschile" e tutte le altre parole utilizzate per la dominazione attraverso la definizione vengono investiti fallicamente, a causa del-l'affinità tra il mandato del genere maschile e la definizione stessa (dal quale esso deriva). Il termine "maschile" si appropria dei maschi stessi, quelli che hanno una "marca", i quali a loro volta diventano appropriatori e utilizzano la propria "marca" per dominare o prendere il sopravvento. Dalla loro posizione di "autor-ità" resa possibile grazie alle loro "marche", essi utilizzano le loro parole per definire e conquistare.

La comunicazione verbale tra gli uomini e le donne dovrebbe perciò tentare di creare un'inclusione mutua tra coloro che vengono definiti culturalmente come diametralmente opposti, in cui un estremo viene definito "superiore" all'altro, norma marcata ed "esemplare" per la specie. Le contraddizioni logiche che tale situazione implica creano doppi legami (double binds) dannosi, che la società non ha ancora risolto. Infatti, molti meta-mes-saggi riguardanti il genere sono orientati sull'ego, sono costruiti in funzione della logica dello scambio e confer-mano la superiorità del genere maschile. Questo libro vuole essere un tentativo di meta-messaggio alternativo del dono riguardo le categorie di genere, rispondente al bisogno di abolirle.

La sostituzione sopravvalutata

Dal momento che ai maschi "mascolizzati" viene attribuito socialmente un valore maggiore, allo stesso modo viene data maggiore attenzione all'aspetto linguistico della sostituzione, che esercita così il proprio dominio, nella nostra comprensione, sull'aspetto del donare come pratica. Si sviluppano quindi alcuni modelli auto-riflet-tenti che esprimono la natura contraddittoria del genere basato sul linguaggio, perpetuandolo. La sostituzione, o il prendere-il-posto-di, diviene dominazione e si riproduce, prendendo il posto del donare che lo alimenta; l'uomo prende il posto della donna quale modello del-l'essere umano, e le donne continuano a donare agli uomini e a dare valore al modello maschile; il comportamento maschile della dominazione e della competizione prende il posto della non competizione, della pratica del dono e del cedere il passo. Questi comportamenti riproducono gli aspetti dei meccanismi di servizio e sostituzione che abbiamo visto nella definizione; dare valore è un aspetto del donare, che continua a sostenere la domi-nazione-sostituzione nella nostra società.

Al livello del linguaggio, diamo valore ai doni sostitutivi che sono le parole, mentre al livello dei generi diamo va-lore al sostituto, all'uomo che prende il posto della donna (e di altri uomini). La nostra attenzione si concentra su colui che prende il posto, e non più sulla Madre Terra o sulla madre, o su qualsiasi donatrice, colei il cui posto è stato preso. La pratica del donare diventa a sua volta inferiore (non le viene attribuito alcun valore) rispetto alla sostituzione, che è stata generalmente privata dei suoi aspetti di dono così da apparire completamente l'opposto del dona-re. Così, in economia, lo scambio – che è un meccanismo di sostituzione e di cedere il passo – sostituisce, secondo un meccanismo auto-similare, l'intero sistema della pratica del dono, che cede il passo (v. Fig. 10).

Un'altra espressione della mascolazione è l'uso della definizione e della denominazione per controllare il

Figura 10. Il prevalere e il cedere il passo a diversi livelli].

 

comportamento degli altri attraverso il comando e l'obbedienza (il cedere il passo della volontà). Quando ai membri che rappresentano metà della comunità è stato assegnato il mandato di essere "non nutritori", è difficile convincerli che dovrebbero esserlo nei momenti appropriati e in misura limitata. Così i bambini potrebbero essere paradossalmente picchiati (un "sopravvento" fisico) per non aver donato o ceduto il passo, per essere stati disobbedienti o aver mostrato mancanza di rispetto. La moralità e la legge sono an-ch'esse strutturate in funzione del comando e dell'ob-bedienza, della dominazione della parola. La vendetta e la rappresaglia sono le conseguenze della disobbedienza; e viene data la "giusta" punizione in cambio dell'inosservanza della legge. Il donare viene fatto apparire non realistico, mentre sarebbe necessario praticare non tanto la "giustizia" – basata sulla definizione, la mascolazione e lo scambio – bensì l'empatia, la riaffermazione del paradigma del dono e del modello della pratica materna.

Una comunità divisa

Ognuno all'interno della comunità fa a turno nei ruoli di parlante e di ascoltatore (donatore e ricevente linguistici). La co-municazione avviene certamente anche tra le persone di uno stesso genere, così che i parlanti e gli ascoltatori (i donatori e i riceventi) possono anche appartenere allo stesso sesso. Ciascun genere sviluppa il proprio tipo di co-munità d'inclusione mutua con quelli dello stesso sesso, mentre tenta di colmare l'e-sclusione mutua formando una co-munità con quelli del sesso opposto.

Vi sono così due processi differenti per ciascun gene-re. Se formare la co-munità dà origine al tempo stesso alle nostre identità individuali, vi saranno due tipi d'i-dentità per ciascun genere: un'identità costruita a partire dalla co-municazione con lo stesso sesso e un'altra costruita dal co-municare con il sesso opposto. (Le donatrici donano alle donatrici; esse inoltre donano e "cedono" a chi è impegnato a prendere-il-posto-di; chi pren-de-il-posto forma una comunità di simili che sono anche in competizione per prendere ognuno il posto dell'al-tro.) I principi basilari del meccanismo della co-munica-zione – il donare e la sostituzione – vengono inscenati nei due ruoli di genere in opposizione.

Gli usi impropri della definizione e della denominazione – che sarebbero stati altrimenti processi e meccanismi linguistici relativamente neutrali e benefici per la collettività – sono resi possibili dall'invisibilità della pratica del dono, nel linguaggio e nella vita. Essi sono tanto le cause quanto il risultato della mascolazione e dell'an-nullamento del modello della pratica materna. La restituzione della pratica del dono alla nostra visione del linguaggio e della vita (così come la restituzione dell'idea di servizio e di soddisfazione del bisogno comunicativo alla definizione e alla denominazione) può indebolire il possesso patriarcale di un processo reificato e disumanizzato di definizione, togliendo l'investimento fallico della parola.

I valori della famiglia

In realtà, il modello della pratica materna è stato tenuto all'interno della famiglia, svuotato di potere, e nonesteso al resto della società. È stato interpretato dalla ideologia di destra come subordinato al modello dominante del padre. Le famiglie costruite su tali, oppressivi, "valori della famiglia" sono la chiave di volta del patriarcato. In essi, chi svolge le pratiche di cura e le pratiche del dono viene catturato nel servizio (permanente) di un'altra persona che la dominerà e usurperà la sua posizione di modello per i figli – un fatto che la rende al tempo stesso un modello di debolezza e di subordinazione per le figlie. Invece, la pratica materna può rappresentare il fondamento ragionevole e realizzabile delle nostre istituzioni sociali, e la pratica del dono può essere riscattata come principio di un ordine sociale migliore.

Con questo non intendo dire che lo stato patriarcale dovrebbe cooptare le pratiche di cura, come già è stato tentato con diversi tipi di scambio mascherati da doni e da programmi assistenziali. Negli USA, gli aiuti al "Terzo Mondo" all'interno e fuori del paese sono quasi sempre uno scambio nascosto che va a beneficio dei "donatori" e a detrimento e umiliazione dei "riceventi". Le pratiche di cura a partire dal modello maschile, seppure un modello maschile collettivo, non hanno funzionato, come hanno dimostrato molti esempi, pagati a caro prezzo, di comunismo (capitalismo di Stato) e di burocrazia2.

I governi, piuttosto, dovrebbero essere ri-organizzati per essere liberati dalla rivalità per il predominio, così che gli individui e i gruppi relativamente piccoli possano prendere parte alle pratiche di cura vicendevoli; una tale trasformazione esigerebbe poi la creazione di abbondanza con la cessazione dello sperpero. Attualmente la penuria viene creata artificialmente mediante la spesa superflua di prodotti che non alimentano la vita, armamenti, droghe, e beni di lusso simbolici. Tali sperperi esauriscono l'economia dei molti, assicurando il perdu-rare dei sistemi di sfruttamento socio-economici patriarcali e il privilegio e il potere dei pochi.

È importante vedere il linguaggio come uno strumento a partire dal quale organizzare la società, poiché esso ha la proprietà di essere sia individuale sia sociale, sia nella nostra mente sia in quella dei nostri gruppi. Come fondamentale fattore creativo nella formazione delle nostre identità individuali e collettive, esso contribuisce a colmare il divario tra il singolo e la collettività.

Lo scambio, costituito da un meccanismo di sostituzione e di cedere il passo come derivato della definizione, è un archetipo auto-riflessivo molto potente, che ci spinge a interpretare ogni cosa a sua immagine e somiglianza, nascondendo al tempo stesso la pratica del do-no. Se riusciamo a individuare, comprendere e demistificare i suoi meccanismi restituendo il principio del donare in abbondanza alla nostra idea di linguaggio, potremmo utilizzare il linguaggio come una guida per creare una società della pratica materna, qui, sulla Madre Terra. La pratica del dono e i suoi valori sono già disponibili; dobbiamo soltanto modificare la nostra prospettiva, togliendoci gli occhiali del patriarcato per vederli.

Categorie prive di genere

Anche quando parliamo del Bene o della Giustizia, che sembrano termini "non marcati" e di genere neutro, abbiamo davanti gli uomini come modelli, non riconosciuti tali. Il Bene è carico di immagini e figure di dei maschili, mentre la Giustizia dipende generalmente da giudici maschi e leggi maschili. Il valore dato al-l'eguaglianza, importante fattore nella forma concettuale uno-molti e principio fondamentale della mascolazione e dello scambio, favorisce anch'esso il perpetuarsi del modello maschile (le madri si prendono cura dei bambini che sono diversi da loro, non uguali). Le immagini e gli attori maschili portano con sé i valori che sono stati dati loro socialmente, incluso il privilegio della loro "marca".

Inoltre, le categorie apparentemente neutre vengono elevate a categorie speciali alle quali dovremmo cercare di appartenere. Sono una sorta di stato di esistenza artificiale "non marcata", una norma più ampia nella quale i bambini piccoli, che hanno dovuto rinunciare alla categoria delle madri, possono sforzarsi di rientrare, in quanto adulti, senza subire il terrore del bisogno illusorio di castrazione. Comportandosi secondo le leggi, i comandamenti, le regole e le disposizioni dei padri possono diventare simili ai loro padri e fratelli, che in questo non sono poi tanto differenti dalle loro madri, dal momento che le regole sono valide per tutti, anche se gli uomini hanno maggiore autorità.

Quando diventano adulti, i bambini possono così in parte spogliarsi della differenza immaginata che ha deteriorato la loro integrità primordiale, la completezza e l'i-dentificazione con le loro madri, l'esperienza originaria autentica che hanno dovuto negare dopo aver scoperto di appartenere all'altra categoria. Le loro madri e le altre donne vengono "elevate" a un livello di equità con loro, poiché seguono le stesse regole e hanno teoricamente gli stessi privilegi.

Le categorie neutre, oggettive ("imparziali"), promettono una sorta di utopia alla quale i bambini possono ambire se si comportano bene o se tutti si comportano bene. Comportandoci in modo da poter entrare a far parte della categoria dei "buoni" (o anche "democratici" e "americani"), sembra che abbiamo una possibilità di superare l'estraniazione originaria dovuta alla presenza o alla mancanza della "marca", la differenza di genere. A questo punto voglio insistere sul fatto che questo triste percorso non è necessario, poiché l'estraniazione originaria non è necessaria. È l'interpretazione sociale di genere che estrania il bambino piccolo dalla madre, a causa della sua "marca"; e noi possiamo cambiare un'interpreta-zione sociale. Il bambino è in realtà ancora un membro della categoria umana, che ha come modello la madre donatrice, così come la bambina. La "marca" è in realtà irrilevante rispetto alla categoria umana, sin dall'inizio.

Gli adulti socializzano i figli a questi ruoli sia attraverso il loro comportamento sia ricordando costantemente al bambino di essere maschio, dirigendolo verso l'iden-tità del padre, lontano dall'identità donatrice interattiva di cui fa esperienza ogni giorno con la madre (la questione è ancora più grave se il padre non è mai disponibile e il figlio vede soltanto altri uomini per strada o in televisione). Noi adulti separiamo l'identità concettuale del bambino dalla sua esperienza; lui cerca soltanto di utilizzare il linguaggio riguardo a se stesso, così come lo usa riguardo ad altre cose per capire che cosa sono.

In modo analogo, una bambina apprende dalla società che la categoria alla quale lei e la madre appartengono è "inferiore", che spesso non è neppure distinguibile come categoria e che la madre, che è ancora il suo modello, dà probabilmente valore al maschio con la sua "marca" più di quanto ne dia alla figlia, a se stessa o al proprio genere.

Un altro effetto della mascolazione è che il privilegiare un genere, un tipo, piuttosto che un altro sembra es-sere legato a una "marca". Il denaro, l'automobile, i possedimenti funzionano come "marche" di classe; il colore della pelle, l'altezza e altre differenze fisiche funzionano come "segni" di categorie razziali o culturali. Ma tutte queste dinamiche hanno origine nella "marca" fallica, e nel definire la differenza tra il bambino e la madre in base a una differenza fisica; promuovono l'idea di un "deviato" privilegiato. E sembra così che dovremmo comportarci ossessivamente in modo mascolato dal momento che ognuno è legato alla (propria) "marca".

Il denaro ad esempio, come il fallo, è la "marca" che sembra identificare la norma. Esso dequalifica la norma (del donare) il cui posto è stato preso, rendendo "inferio-re" chi non ce l'ha. Anche altri tipi di caratteristiche come la pelle bianca possono funzionare come "marche" della norma imposti culturalmente, per cui gli altri colori della pelle verrebbero interpretati come categorie "mancanti" o "meno normali". Ciascuna di noi agisce secondo la definizione che ha di sé, come fanno i bambini e le bambine; seguiamo ciecamente le profezie che si autoavverano dei nomi della nostra categoria, che recano in sé le interpretazioni sociali sbagliate delle nostre differenze fisiche e non fisiche. Oppure potremmo affrontare le profezie e contraddirle. Sarebbe più facile cambiare le definizioni, che cambiare la vita e i modelli sociali che so-no ormai già distorti a loro immagine e somiglianza.

Sia le donne sia gli uomini possono imparare (e molti lo stanno già facendo) a parlare ai figli/e riguardo il genere a partire da un meta-livello, dicendo loro cose tipo: "Le parole che usiamo per parlare di noi non sono proprio esatte. Noi siamo un po' diversi rispetto a come sembrerebbe: anche se diciamo ‘maschio' e ‘femmina', ‘bambino' e ‘bambina', ‘mamma' e ‘papà', siamo tutti umani. In realtà apparteniamo tutti a una stessa categoria". In effetti, quando i figli/e sono piccoli/e, devono anche riuscire a non tenere conto di altre differenze fisiche importanti (come l'essere grandi o piccoli), per esse-re in grado di concepire la categoria "umana" e considerare se stessi parte integrante di questa categoria. Hanno senza dubbio una mente abbastanza aperta per non tenere conto della differenza tra i genitali per definirsi, se noi non imponiamo loro altrimenti.

Consideriamo il modo in cui la gente che ha dei fi-gli/e piccoli/e parla di genere; quando sono vestiti/e, i bebè, femmine e maschi, sembrano molto simili tra loro e il genere è la prima cosa di cui la gente chiede ("è un maschio o una femmina?"); persino l'abitudine di distin-guerli/e per il colore che indossano, azzurro o rosa, può in realtà trarre in inganno. Non dovremmo imporre degli stereotipi sui nostri figli/e, ma piuttosto consentire loro di crescere attraverso le interazioni della pratica del dono e di prendere coscienza di ciò che sono mentre crescono. Dovremmo forse permettere loro di scegliere il proprio genere nella pubertà, secondo la loro preferenza sessuale, accogliendo la loro scelta con rituali e celebrazioni; non dovremmo opprimerli/e con una profezia che si autoavvera, che li/e aliena da noi e da loro stessi/e.

Potremmo pensare che i bambini non siano abbastanza intelligenti o abbastanza logici per cogliere queste distinzioni; ma se così fosse, sarebbe probabilmente perché li abbiamo confusi sin dall'inizio caricando i termini delle loro identità con tali differenze complicate e false. Non lo facciamo soltanto a un livello individuale: fa parte ed è il prodotto della tendenza sociale misogina nell'insieme. La categorizzazione stessa è diventata uno strumento di oppressione legato alla valutazione economica di ogni cosa in funzione del suo prezzo. Ma la pratica del dono e la soddisfazione del bisogno sono più importanti della categorizzazione per il benessere dell'umanità. La categorizzazione è stata soltanto distorta ed eccessivamente enfatizzata come conseguenza della mascolazione.

Potremmo anche evitare la mascolazione abolendo tutti i termini di genere per i bambini/e: potremmo chia-marli/e ad esempio "um", come diminutivo di "umane/i", e dire così "come stai, um?"; alla domanda "è maschio o femmina", potremmo rispondere "è um", op-pure potremmo semplicemente canticchiare3. Magari anche gli adulti potrebbero cominciare a riferirsi a se stessi nello stesso modo. Questo risolverebbe il problema dell'i-dentità mascolata basata sulla separazione, della definizione di "femmina" come inferiore e della sopravvalutazione del neutro o oggettivo, evitando d'imporre false distinzioni a priori. Il pene non è un dono speciale o una "marca" di una categoria superiore; è soltanto una parte del corpo.

Con ciò non intendo ignorare le caratteristiche positive e vitali delle differenze sessuali, ma liberarle dagli stereotipi e in particolare dall'ossessione di mascolazione che sta uccidendo noi e la nostra Madre Terra. È for-se perché non possiamo sentire la Terra dire "Siete come me! Fate parte della mia stessa categoria di chi dona!", che abbiamo fatto questo? Oppure non riusciamo ad ascoltarla proprio perché abbiamo questa ossessione? In quanto specie, ci siamo definiti qualcosa ("Uomo") che è "altro" rispetto alla Madre, e dobbiamo agire secondo la nostra profezia che si autoavvera.

In altre parole, abbiamo fatto la stessa cosa con la Madre Terra di quello che abbiamo fatto da bambini maschi guardando le nostre madri umane: abbiamo negato la nostra affinità identificandoci come "qualcos'altro", ma non sappiamo in realtà di che cosa si tratti (così abbiamo finito per identificarci con la parola stessa). Il nostro esemplare sembra essere un dio maschio proprio come noi, nell'alto del cielo più grande e più importante della Madre. Noi cerchiamo di comportarci come lui dice di comportarci, inventiamo una grande catena gerarchica dell'e-sistenza, di dominare e di cedere il passo e ci dimentichiamo degli impulsi dei nostri cuori volti a donare.

Se ai bambini viene data fiducia e li si lascia giocare a modo loro, tuttavia, essi diventeranno molto intelligenti e creativi, come ha scoperto Maria Montessori. Dobbiamo lasciare che le definizioni di noi stessi si sviluppino a partire dalla nostra esperienza e dalla nostra libera attività – il gioco, la creatività, le interazioni del donare – colmando di realtà vitale il nostro periodo più sensibile di apprendimento. Non dovremmo far sì che i nostri fi-gli/e cerchino di adeguarsi alle categorie adulte di gene-re di opposizione preesistenti. Questo è più facile quando vi è abbondanza, e quando l'esperienza del bambi-no/a non è inaridita dall'abuso o dalla penuria.

Forse "um" (hum) può anche valere per "humus", la terra, il terreno che noi e le nostre culture globali siamo l'uno/a per l'altro/a, le basi dalle quali cresciamo e alle quali ritorniamo. Forse potremmo finalmente agire secondo la pratica del dono, perpetuando la condizione originaria madre-figlio/a, lasciandola infine fiorire sensatamente e liberamente nella società intera.

Un esperimento personale

Non è difficile in realtà modificare il linguaggio che insegniamo ai figli/e. Io stessa l'ho tentato, negli anni Sessanta, con la mia figlia maggiore, Amelia: con lei ho evita-to di usare il pronome possessivo, non insegnandole "il mio", "la mia" o "la sua". Dal momento che la madre è l'esemplare originario, una bambina apprende da lei, sentendola parlare, più che da altri/e, ho anche chiesto alle persone che erano con noi di evitare l'uso dei possessivi. Amelia li ha poi sentiti, alla fine, da altre persone che conoscevamo meno, alla radio ecc. Cercavo di aggirare i casicritici, dicendo "papà lo usa", invece che "è di papà". È interessante notare che lei non ha appreso i possessivi fino ai tre anni circa, sebbene a quell'età parlasse già bene.

So in quale situazione li apprese: voleva giocare con i piatti, e una persona le disse: "Non toccarli, sono di tua madre". Ho sempre pensato che fosse a causa della motivazione illogica (in realtà non avrebbe dovuto giocarci perché potevano rompersi, non perché erano miei), unita al fatto che la persona che possedeva i piatti ero io, la madre, che mia figlia abbia infine cominciato a utilizzare quella categoria. È difficile dire se il fatto di non imparare i possessivi abbia reso mia figlia più generosa di quanto non sarebbe stata altrimenti, o se addirittura ab-bia avuto un effetto seppure minimo su di lei: l'esperi-mento è finito troppo presto, c'erano troppe variabili e farlo da sola non credo fosse realmente efficace.

D'altra parte, però, non l'ha neanche danneggiata; l'aggettivo possessivo non è tanto basilare quanto il genere e, comunque, la vita ha assorbito qualsiasi negatività che potesse rimanere implicata. Evitare l'uso dei termini di genere sin dalla tenera età potrebbe, tuttavia, avere effetti concreti sul concetto che ha una bambina o bambino di sé, specialmente se viene messo in atto nel loro periodo più sensibile di apprendimento del linguaggio.

Potremmo anche utilizzare termini androgeni nelle scuole materne; potremmo parlare ai bambini/e dei termini di genere a partire da un meta-livello su Sesame Street e Mr. Roger's Neighborhood; potremmo dare esempi televisivi di madri e figli/e che usano termini privi di genere, definendo le loro categorie come parte di un genere umano comune. Penso che anche in questo caso la vita correggerebbe qualsiasi eventuale elemento negativo che dovesse comportare l'esperimento.

Le donne hanno compiuto una tale differenziazione del linguaggio negli ultimi decenni, eliminando la terminologia sessista. Potremmo sicuramente individuare nuovi modi di parlare con e dei nostri figli/e, per cui possano continuare a identificarsi con noi, in un processo in evoluzione, al di fuori dei concetti di genere stereotipati. Così potremmo forse riconoscere tutti/e e accettare le nostre reciproche parentele, i legami con le nostre madri e con la Madre Terra, e fare ritorno alla norma del dono.

1 Per Saussure (infra, cap. IV), la langue è un sistema di unità puramente differenziali. Ciascuna parola è legata a tutte le altre in base all'esclusione mutua e viene identificata come se stessa proprio perché non è le altre. Quando significante e significato sono considerati assieme, intervengono anche altre associazioni e opposizioni, come il binarismo delle opposizioni e le variazioni paradigmatiche regolari.

2 Sebbene il comunismo possa essere visto come un tentativo di soddisfare i bisogni, esso è stato insidiato, come il capitalismo, dalle strutture patriarcali. Marx e, fino a oggi, altri economisti maschi non hanno capito che la manodopera gratuita delle donne è un lavoro che produce valore. Se il lavoro delle donne contasse (cfr. Waring 1988), dovremmo aggiungere almeno il 40 per cento al PIL della maggior parte dei paesi occidentali e oltre nel caso dei paesi del Terzo Mondo. Gli economisti che trascurano tali macroscopici elementi, distorcono inevitabilmente le analisi, come se uno studioso del sistema solare ignorasse il 40 per cento dei pianeti esistenti. Pertanto lo studioso dovrebbe trovare altre spiegazioni per gli effetti provocati da questi pianeti, ad esempio, le orbite irregolari; non sarebbe in grado di tracciare la mappa di un itinerario per il buon esito di un viaggio nello spazio. Il femminismo rappresenta un'analisi più completa, più approfondita, di maggiore portata e una base migliore di pianificazione sociale rispetto al comunismo o al capitalismo poiché, al contrario di questi, valorizza il lavoro gratuito.

3 Gioco di parole su hum per human e hum che vuol dire "canticchiare sotto voce".

 


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