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Forgiving: A Feminist Criticism of Exchange
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Capitolo settimo

La fonte collettiva

Attraverso il linguaggio, ciascun individuo formula una propria risposta all'interrogativo filosofico più complesso del nostro tempo: "Qual è il rapporto tra il singolo (l'uno) e i molti?". La relazione tra l'individuo e la propria cultura, quindi rispetto agli altri cinque miliardi e mezzo di esseri umani oggi esistenti, è molto diversa dalla relazione che si poteva avere con il proprio paese o gruppo sociale nei secoli passati. I mass-media ci porta-no immagini e informazioni su miliardi di persone che non incontreremo né conosceremo mai, che sono altrettanto umani come siamo noi; in modo analogo, l'astro-nomia ci ha permesso di vedere il nostro singolo pianeta Terra nel mezzo di milioni di galassie e miliardi di altre stelle con tutti i lori possibili pianeti. Dal momento in cui la nostra conoscenza dell'umanità e dell'universo è aumentata, la nostra dimensione di individui, relativamente al tutto, si è incredibilmente ridotta. Eppure ciascuna di noi rimane in primo piano rispetto a se stessa, e appare così molto grande, poiché non si concepisce che in base alla propria prospettiva.

La risposta al nostro interrogativo, dal punto di vista del paradigma del dono, suona all'incirca così: ciascun umano è parte della collettività, poiché la sua identità si forma attraverso l'uso di doni linguistici, culturali e materiali della collettività, che vengono donati a ciascuno di noi dagli altri, e da ciascuno di noi agli altri. Le nostre soggettività fisiche e psicologiche sono fatte di questa materia, questa matrice (o madre) che noi stesse ri-formiamo e ridiveniamo per gli altri. Ciascuno di noi è un punto o un luogo, una maglia del tessuto costituito dalla trasmissione di innumerevoli doni. In questo tessuto, il processo collettivo mette in relazione le cose con le parole, le parole con le parole, le cose con le cose e noi l'uno con l'altro, verso e attraverso i doni su tutti i diversi livelli.

Il reiterare la mascolazione a diversi livelli ha alterato la configurazione di questo processo collettivo, dirigendo il flusso verso una categoria di singoli dominanti che si motivano da sé, che cercano di estendere la propria importanza individuale stabilendo relazioni di controllo sulla collettività e sui suoi doni. Questi singoli sono spesso serviti da altri/e che accedono alla relazione con i molti indirettamente, attraverso la loro relazione con il singolo che domina i molti. Seppure sia concepibile che i singoli, aumentati, possano restituire i loro doni ai mol-ti, ciò non è in accordo con il mandato di genere, volto al dominio. Sfortunatamente, la relazione di dominio dell'uno sui molti sembra avere un possibile esito nella distruzione dei molti da parte dell'uno. Ultimamente, la capacità di provocare una catastrofe nucleare ha reso accessibile questo potere e alcuni "uni" hanno giocato con esso. Dobbiamo mettere in luce il carattere illusorio del-l'impulso volto a dominare e ad aumentarsi, e ri-crearci attraverso il processo del donare e ricevere, trovando il modo di metterci in relazione come nutritori, uno tra i molti e molti tra i molti.

Le nicchie ambientali

Una nicchia ambientale è un dono per il quale i riceventi si evolvono; gli esseri viventi si sviluppano con bisogni che possono ricevere un certo tipo di nutrimento.

Il linguaggio è il prodotto e il sottoprodotto della vita delle generazioni passate, che le generazioni e gli individui nel presente possono ricevere e utilizzare; è una nicchia ambientale culturale creata collettivamente.

Noi abbiamo bisogno d'interagire l'uno con l'altro riguardo alle cose, poiché esse hanno valore per noi collettivamente e individualmente in diversi modi; e abbiamo bisogno di utilizzare le cose collettivamente e individual-mente in diversi modi per mettere a frutto il loro valore. Altre nella società hanno contribuito in larga misura al valore delle cose, ed è lo stesso per il valore delle parole. L'aspetto relativo al "come farne uso", almeno nell'ambi-to del nostro ambiente circostante, ci è stato dato generalmente in modo gratuito, è stato lasciato lì perché noi lo prendessimo o ci è stato tramandato dalle nostre madri. Questo, insieme alla conoscenza di ciò che per noi sarebbe più appropriato utilizzare, ci viene trasmesso dagli altri nella società. Ma tutto questo, tutta la nostra cultura materiale, si trova lì perché altri vi hanno interagito nei secoli e hanno mediato le loro interazioni attraverso il linguaggio. Non soltanto sono state trascurate le donne e le cose, ma i processi vitali delle moltitudini nel passato (e nel presente) sono stati spesso ignorati dai filosofi che valutano le parole al di sopra delle cose, poiché vedono il mondo da un punto di vista decontestualizzato e mascolizzato. La tendenza al sessismo è più ampia della questione di genere: dà origine alla negazione e alla distorsione dei punti di vista che influenza molte altre questioni; s'inserisce nella dialettica interattiva tra le parole e le cose, tra chi definisce e ciò che viene definito, alterando in profondità la prospettiva collettiva e l'immagine del mondo che si presenta al nostro sguardo.

Lo scambio ha misappropriato alcuni processi del linguaggio e, trasferendoli su un piano materiale, ha creato una situazione in cui il dono viene in realtà annullato dal-l'esigenza di un "dono" di ritorno equivalente. Questa situazione artificiale si viene a creare usando in un altro modo una parte del modello in cui la parola prende il posto di una cosa, rendendo il dono di quella cosa non più necessario per la creazione della relazione umana del momento: non ho bisogno di darti questo fiore per creare una relazione umana co-municativa con te, in questo momento; posso limitarmi a pronunciare la parola "fiore". La parola serve anche come esemplare-equivalente. Nella descrizione del processo del concetto, abbiamo considerato come la "cosa" esemplare non sia più necessaria, quando la parola prende il suo posto come equivalente di tutte le cose appartenenti a quella determinata categoria. Sul piano materiale dello scambio, nel momento in cui viene dato il "dono" di ritorno, esso annulla anche il carattere di dono del primo dono ed esprime il suo valore, rappresentandolo. Questo risulta particolarmente evidente quando il "dono" di ritorno è il denaro.

Il denaro prende il posto del prodotto come equivalente di altri prodotti (sostituendo così e annullando quel prodotto in quanto equivalente); esso valuta e rappresenta il valore del prodotto nello scambio in quanto "dono" sostitutivo (curiosamente, il denaro, arbitro dello scam-bio, funziona soltanto nel momento in cui viene dato via). Il denaro annulla inoltre sia il valore qualitativo sia il valore di dono (l'implicazione che l'altra persona abbia valore) sostituendoli con il valore quantitativo e il valore di scambio, così che quelli vengono considerati nell'am-bito della categoria di ogni altro prodotto sul mercato.

La transazione umana del-donare viene alterata, e parte del processo concettuale viene sostituito a essa per mediare la relazione mutuamente esclusiva della proprietà privata. Tale uso materiale del processo del concetto (e del processo linguistico) trasposti, permette a ciascuna delle parti che scambiano di inscenare a turno la definizione, per dare e ricevere la parola-dono sostitutiva, il denaro. Coloro che scambiano possono così dare senza privarsi: danno valore alle cose e al loro sostituto, il denaro, invece che darsi valore l'una all'altra. Il denaro è il mezzo di comunicazione attraverso il quale viene definito il prodotto, e chi compra lo dà a chi vende così come chi definisce dà il definiendum a chi ascolta. Il venditore deve a sua volta cedere il prodotto, ciò che, per il processo di definizione, sarebbe la cosa definita. Mentre il prodotto pas-sa attraverso il processo del concetto incarnato, il suo va-lore di dono viene annullato e trasferito al denaro, che col prodotto viene scambiato. Quella somma viene così chiamata il valore di scambio del prodotto. Nel momento in cui il prodotto diventa di proprietà di chi compra, esso esce dal processo di mercato e diviene un "valore d'uso".

Annullando l'attribuzione di valore al ricevente, il processo di scambio cancella il valore di dono del prodotto in un modo non generalmente riconosciuto. È come se il valore d'uso si scrollasse di dosso ogni precedente esperienza: dopo averlo comprato e aver pagato ciò che valeva, non ci preoccupiamo più della sua provenienza; non pensiamo più se la fonte del prodotto che stiamo usando risalga ai lavoratori sottopagati del "Terzo Mondo", alla manodopera infantile o ai membri dei sindacati statunitensi. Il prodotto è pronto per il nostro uso, ma chi lo ha fabbricato, non viene riconosciuto né ringraziato e neppure il prodotto viene ricevuto da chi lo ha fatto, come un dono nutritore che trasmette implicitamente valore ai riceventi. Invece, il riconoscimento e la gratitudine vengono date al singolo che ha "fatto" i soldi, o magari al compratore, al venditore o allo stesso processo di mercato. Per questa ragione ritengo che vi sia una differenza logica invisibile tra il valore d'uso che passa per il processo di scambio e il valore d'uso fatto dalle persone direttamente per gli altri, in cui si trasmette il valore di dono. La persona che utilizza un valore d'uso, preparandolo e adattandolo per la soddisfazione dei bisogni dei componenti della propria famiglia, aggiunge a esso il valore di dono, ma il valore di dono che gli è stato dato dai fabbricanti è stato annullato (o dirottato verso il profitto di altri) dal processo di scambio.

Il mondo come punto di partenza

Nella sua analisi del denaro e delle merci (prodotti di scambio), Marx ha considerato le merci come punto di partenza; riteneva che tutti gli studiosi che sino ad allora erano partiti dal denaro fossero in errore. Una simile considerazione può essere fatta anche sulla relazione tra le parole e il mondo. Nel formulare il nostro interrogativo su questa relazione, normalmente consideriamo le parole come punto di partenza, ma questo ci mette sulla strada sbagliata: è necessario cominciare dal mondo, non dalle parole – dalla co-muni-cazione materiale, non da quella verbale. La risposta, in entrambi i casi, passa per l'attività di dono degli esseri umani. Cominciando dalle parole stesse, non riusciamo a vedere il carattere di dono delle parole e neppure delle cose; esso rimane nascosto anche a causa della trasparenza delle parole, perché la posizione della parola è coinvolta nella mascolazione e perché nella definizione c'è una tendenza verso il prendere-il-posto-di ecc.

La posizione delle donne, poste in una condizione "inferiore" di donatori rispetto agli uomini mascolizzati, è simile a quella delle cose rispetto alle parole. Perciò risulta più facile alle donne comprendere il linguaggio a partire dal punto di vista delle cose, mentre gli uomini assumono generalmente la prospettiva delle parole. Tutti gli umani sono certamente "cose in relazione alle parole", quando si tratta di parlarne: "quella persona laggiù", "il/la prossi-mo/a della fila", "l'amico/a di Giovanna"; però, dal momento che la parola è stata incarnata nel genere maschile, le donne assumono il ruolo analogo di cose in relazione a quella "parola". Abbiamo sperimentato il ruolo di cose di cui si parla, invece di parlare; sappiamo cedere il passo al-l'uno che prende il nostro posto, che ci rappresenta, ci representa in pubblico, mentre noi continuiamo a svolgere la nostra pratica del dono in casa.

Ma le donne si mettono attivamente in relazione, svolgono il lavoro di mantenimento, si prendono cura e allevano i figli/e – tutta la miriade di compiti di cui le donne si sono sempre occupate – dando continuamente valore agli altri in diversi modi. Le cose non fanno lo stesso in prima persona, come noi; non si pongono in relazione con le persone. Da cosa deriva il loro lato attivo? Dall'attività della collettività e dalla sua ricettività creativa, aldilà dell'individuo, nel sottofondo dei molti, dove le donne sono state anonimamente per secoli. Il nostro donare non riconosciuto, provvedendo agli altri direttamente e indirettamente, è il processo e il risultato di una continua dialettica interattiva collettiva con le cose. Non soltanto noi umani pratichiamo il dono ma, nel corso di questo processo, lasciamo una notevole quantità di sottoprodotti a disposizione di chiunque li prenda. È sembrato talvolta che le donne (e le altre persone escluse) non fossero altro che sottoprodotti di alcuni uomini e che, come le cose, avessero soltanto il valore dato loro dalla collettività e non quello proveniente da loro stesse in quanto donatrici interattive. Le cose sono come le donne anche perché cedono il passo alle parole, lasciando che queste prendano il loro posto.

Una tale prospettiva delle donne come "cose" che praticano cure e cedono il passo, in una relazione da-molte-a-uno riguardo agli uomini, che prevalgono e le possiedono o le controllano, ricalca la relazione tra cose e parole che i filosofi hanno sempre trovato così difficile da capire. I filosofi maschi hanno sempre assunto la loro prospettiva come punto di partenza, il punto di vista di chi si appropria, possiede, controlla, gli "uni" in opposizione ai "molti". Le donne, trattate come cose, possono assumere la prospettiva delle cose, dei molti e di coloro che donano e cedono il passo.

Qualcuno potrebbe chiedersi: "Ma le cose donano e cedono il passo realmente alle parole, come le donne cedono il passo agli uomini?". Nel tessuto degli innumerevoli doni che costituisce il processo di vita della collettività, le cose vengono forse animate dai nostri gesti magici per diventare alla fine tanti Pinocchi obbedienti alle parole dei loro Padri? O non è altro che una proiezione? Tralasciando le parole di Geppetto, le streghe (e la fata turchina) sono sensibili alla vita delle cose inanimate, forse perché, in quanto donne, sappiamo di essere uguali a esse, sotto l'incantesimo dell'oggettivazione. Ma le nostre parole sono diverse, meno vuote di quelle degli uomini mascolati, perché noi pronunciamo non solo parole ma anche cose.

Le parole come punto di partenza

Partendo dalle parole, il fatto di mettere le parole in relazione alle cose porta gli studiosi a concentrarsi sulle parole, ma divide la nozione di parola almeno in due parti: il "veicolo" (suono, significante, segno, scritto, gesto del linguaggio dei segni) e il "significato" (meaning) ("idea", "senso", "riferente", "designatum" ecc.). Io credo che noi stiamo in realtà restringendo parte del valore delle caratteristiche delle cose a ciò che consideriamo il "significato" della parola. Le cose vengono così staccate dalla parola, rese prive del loro valore volto alla comunicazione, perché l'aspetto "per gli altri" sia delle cose sia delle parole non è riconosciuto e non gli è dato valore. Dovremmo vedere le parole non tanto come se possedessero un loro valore proprio, ma come doni sostitutivi che portano con sé il valore delle cose nella e per la comunicazione. Questo valore contribuisce alla formazione della comunità in tutta la sua varietà, poiché permette che ciascuno di noi si relazioni ad altre persone inmodi specifici, e riguardo a tutte le parti del mondo. È l'esistenza generale delle cose per gli altri.

Nella comunità distorta dalla mascolazione, i generi inscenano la relazione tra cose e parole (che non comprendono). Ci siamo impegolati in questo problema proprio perché gli umani, com'è evidente, sono più capaci delle cose a rispondere alle definizioni come profezie che si autoavverano, per quanto le cose possano sembrare animate. Gli uomini inscenano il ruolo della parola, le donne delle cose. Gli uomini, prendendo il posto delle donne, sono i doni sostitutivi ("per gli altri") delle donne e rappresentano il loro valore nella "comunicazione" per il tipo di comunità che chiamiamo patriarcato. Le donne contribuiscono a creare i rapporti specifici che formano e mantengono questa comunità. Gli uomini sono i doni sostitutivi comunitari di questi doni individuali nascosti che sono le donatrici. Anche le cose hanno un aspetto donatore nascosto, che viene attribuito alle parole che prendono il loro posto. Le parole e gli uomini sono "autoreferenziali" (self-referential), mentre le donne e le cose sembrano non esserlo. Tutta questa confusione deriva dal dividere la comunità di parlanti e ascoltatori (e donatori e riceventi) che sarebbero mutua-mente inclusivi e creatori di sé e degli altri, in due categorie di genere originali, ineluttabili e opposte.

"Significato"

Se prendiamo come punto di partenza le cose invece delle parole, possiamo localizzare il "significato" nelle cose in tutte le loro varianti di aspetto e di uso, con la loro relazione con le parole come relazione con i loro doni sostitutivi per gli esseri umani. Diversi tipi di cose che sono in relazione con una stessa parola (ciò che normalmente chiamiamo i diversi "significati" di una parola) possono anche essere simili l'uno all'altro. Ad esempio, la parola "dolce" può esprimere un sapore gradevole, come il miele, o una torta che ha quel tipo di sapore,

o una persona che si comporta in modo gentile. Il miele, le torte, o un certo atteggiamento hanno un'importanza in sé per gli esseri umani. Se non fossero in relazione con la stessa parola, sarebbero legati a parole diverse. Se non fossero legati a nessuna parola che fosse il loro nome, potrebbero comunque essere legati a delle frasi composte di parole che abbiano una qualche relazione con alcune delle loro caratteristiche. Il fatto che le cose siano in relazione con una parola implica che esse (o cose simili a esse) sono state usate per soddisfare i bisogni di molti; hanno una certa misura di generalità. Non sono soltanto le parole in sé a essere generali, ma anche le cose che sono in relazione con esse attraverso l'uso umano. Nella formazione del concetto, la capacità delle cose di esistere ripetutamente per gli altri come cose appartenenti a uno stesso tipo è resa evidente dalla generalizzazione dell'esemplare come uno rispetto ai molti e dall'assunzione finale di polarità da parte di una parola generale. Il fatto che vi sia una parola per un tipo di co-sa specifica esprime la generalità di quella cosa, non sol-tanto della parola. In effetti, la parola non è nulla di per sé; dipende dalla relazione delle cose con essa.

"Significato"1è il termine che sta per la relazione tra le cose e le parole secondo uno schema dall'alto in basso fondato sulla parola. Questa relazione è stabilita dagli esseri umani, l'uno per l'altro collettivamente e individualmente in modo continuativo. Normalmente crediamo soltanto a una relazione che va "dalla parola alla cosa", ma è invece la relazione che va "dalla cosa alla cosa" e "dalla cosa alla parola" a dare valore alle

Figura 11. Le cose in relazione con le parole, le parole in relazione l'una con l'altra.

Le parole nella langue sono in relazione l'una con l'altra in modo mutua-mente esclusivo basato solamente sulla differenza: ogni parola è ciò che è soltanto perché non è le altre. La maggior parte delle parole nella langue sono equivalenti e parole-dono sostitutive con le quali le cose di un certo tipo sono in relazione. Alcune parole, come i connettivi logici, non sono equivalenti né sostituti, ma sono ancora legate ad altre parole attraverso l'esclusione mutua nella langue. Potrebbero essere considerate istruzioni per l'uso delle parole e talvolta per l'uso delle cose.

parole per gli esseri umani; senza questa relazione, le parole non avrebbero alcuna utilità per noi. La relazione "dalla cosa alla parola" è funzionale alla formazione delle nostre identità anche per molte altre ragioni: gli umani sono anche "cose in relazione con le parole", l'uno per l'altro (parliamo l'uno dell'altro); ci prendiamo cura l'uno dell'altro col linguaggio come anche materialmente; e, come abbiamo detto, molti di noi si modellano a partire da determinati processi linguistici.

Abbiamo proiettato questi processi linguistici sul-l'organizzazione della collettività, economicamente, politicamente e nella sua struttura familiare. Le proiezioni confermano e ricompensano alcuni tipi di comportamento e ne sminuiscono altri, "educandoci", influenzando le nostre identità; confezionano il contesto in cui viviamo, imponendoci i parametri della "realtà" nella quale operano le nostre identità artificiali autogenerate (che chiamiamo "patriarcato") (v. Figg. 11 e 12).

Negli USA, non soltanto noi donne prendiamo il nome dei nostri mariti ma, secondo i ruoli tradizionali qui come altrove, gli uomini prendono il nostro posto nella sfera pubblica, parlano per noi e spesso decidono per noi. Siamo conosciute attraverso colui col qua-le abbiamo un rapporto. Per conoscere la relazione tra le cose e le parole, dobbiamo cominciare dalle cose, proprio come, per conoscere la relazione tra le donne e gli uomini, abbiamo imparato dal femminismo a cominciare dalle donne. Gli uomini hanno ragionato per secoli passando dalle parole alle cose, proprio come hanno riflettuto a partire da loro stessi per cercare di capire le donne (e i figli/e e le "cose"). Mi sembra che chi ricerca il significato della vita, così come chi cerca il significato delle parole, parta da un approccio dal-l'alto in basso basato sulla parola. Invece, dobbiamo tutti/e partire dalla pratica materiale del dono più che

Figura 12. Relazioni di simili delle cose rispetto alle parole nella langue, delle mogli tradizionali e i figli rispetto ai mariti e della proprietà rispetto ai proprietari.

 

 

da una pratica linguistica del dono, sostitutiva, di rappresentazione. Dobbiamo donare le cose, non le parole, per soddisfare i bisogni materiali degli altri, per creare abbondanza per tutti, comunicando per forma-re le soggettività fisiche (i corpi) e non soltanto le soggettività linguistiche e psicologiche della comunità. Dobbiamo produrre cambiamenti sistemici che rendano possibile la co-muni-cazione materiale generalizzata per tutti su tutti i livelli.

La relazione inclusiva

L'altruismo potrebbe talvolta sembrare ispirato da false motivazioni, e questo deriva dal fatto che l'ego dello scambio mascolato artificiale ha imparato come praticare l'altruismo, ma non secondo la logica della pratica materna. Gli istituti di carità paternalistici dona-no piccole somme, appena sufficienti perché pochi individui si sentano sollevati senza tuttavia cambiare il quadro generale della situazione. Mantengono il controllo dei propri doni e dei riceventi con "l'accurata supervisione", con l'idea che i riceventi debbano meritare la loro fiducia. Così le donne (anche le madri), sopravvalutando queste procedure "caritatevoli", le assumono come norma generale dell'altruismo. Se le donne continueranno a screditare il modello (l'esemplare del concetto) della pratica materna, guardandolo solamente dal punto di vista auto-riflettente e auto-convalidante della mascolazione e dello scambio – che sia a seguito del nostro successo personale nel sistema o soltanto per aver assunto il punto di vista del maschio, dell'"altro" maschile sopravvalutato che ci degrada – perderemo il potenziale rivoluzionario ("ri-evoluzionario") che oggi appassiona il movimento mondiale delle donne.

Dopo aver accettato per secoli l'imbroglio maschile che noi siamo inferiori (cioè "cose"), e accettando adesso l'imbroglio che dovremmo essere "uguali" al loro modello, rischiamo di rinunciare al nostro allineamento con la Madre Terra, alla possibilità che abbiamo di salvarla, di salvare le nostre madri, noi stesse, le nostre figlie e figli dallo specchio affamato del paradigma dello scambio. Questa specie si autofagocita, perché non è in grado di dare valore all'esemplare concettuale della madre che dona in abbondanza, e neanche di vederla2. Abbiamo reso la pratica del dono, la fonte della vita e della gioia, schiava dell'Io mascolato artificiale e delle sue espressioni a livello economico, politico e ideologico. Questo fa riversare i doni dell'umanità nei forzieri dei pochi, i cui eccessi priapei vengono sottratti ai bisogni e trasformati in armamenti fallici, "marchi" di morte, con i quali un gruppo può dimostrare la propria "superiorità" (occupazione della posizione privilegiata dell'esem-plare del concetto) su un altro, che viene costretto a cedere il passo.

In questo modo, i doni forzati dei molti vengono sperperati in consumi distruttivi che non nutrono, per non parlare dell'immolazione di milioni di cuori, menti e corpi di donanti. Dis-facendo i corpi della comunità, la co-municazione si rivolta contro se stessa, a immagine e somiglianza dell'esemplare del concetto. Nel frattempo, questo stesso processo, provvedendo ai bisogni di guerra (alimentando uno scambio fallico), distrugge (attraverso la spesa sugli armamenti) l'abbondanza che avrebbe favorito la pratica del dono nelle regioni del mondo non direttamente colpite dalla guerra. Abbiamo creato una relazione su diversi piani in cui un numero relativamente piccolo di persone agisce parassiticamente sul resto, ricreando una situazione di privilegio, che in origine si è creata ponendo metà dei nostri/e figli/e in una categoria "superiore" linguisticamente mediata e non-nutrice. Questa categoria è sopravvalutata dalle nutrici, che donano a essa, a causa del suo mandato rispondente al raggiungimento della posizione dell'esemplare del concetto (la posizione dell'esemplare non è altro che un meccanismo concettuale funzionale all'organizzazio-ne delle nostre percezioni, e non un modo di "meritare" amore o abbondanza). L'ospite deve rieducare e persuadere il parassita (che è comunque una parte di sé); non dobbiamo permettere al parassita di continuare a persuadere l'ospite.

Il parassita è fatto di specchi – scambi, definizioni, giudizi – e deve ricevere da qualche altra parte energia, denaro, cibo, tempo, cure per riuscire a diventare abbastanza grande per essere un "uno" privilegiato, sopraffacendo gli altri molti. Ma questo aberrante stato di cose non è colpa di nessuno; la colpa e il peccato appartengono infatti al paradigma dello scambio, sono modi di far "ripagare" gli altri. Non possiamo accomodare il paradigma dello scambio ri-applicandolo a se stesso ripetute volte. Le nostre prigioni e le sedie elettriche stanno traboccando di persone che "pagano" per i loro errori; non abbiamo bisogno di giustizia, ma di empatia. La giustizia in realtà non è altro che un tentativo di definire il reato perché non si ripe-ta. Cerchiamo di applicare questa definizione attraverso un certo tipo di scambio, perché lo scambio deriva dalla definizione. Il "pagamento" implica una comunicazione materiale forzata che esige che il reo rinunci a qualcosa e ceda il passo. Forse pensiamo che coinvolgendo il piano materiale, richiedendo i suoi beni, il suo tempo o la sua vita stessa, in uno scambio "equo", produrremo effetti migliori su chi fa del male. C'è una tendenza a valutare la gravità del reato in funzione di altri reati (una sorta di quantificazione); il reo è ancora una volta mascolato, tenuto fisicamente a distanza (decontestualizzato) e posto in una categoria di "altro" con un "termine" o una "sentenza".

Molti "uno-molti"

Pensando a tutto questo, ho notato che avevo tre campi di relazioni di similarità su cui ragionare: 1) Le merci stanno al denaro come 2) le cose stanno alle parole come 3) le donne stanno agli uomini. Potevo usare ciascuna relazione per chiarire le altre.

Tutti questi campi hanno relazioni "da-molti-a-uno" nella loro struttura. Tutte le merci sono "molte", in relazione al denaro quale loro unico equivalente generale; sono poi "molte" in relazione a un prezzo specifico, che è "uno". Le cose sono in relazione alle parole in diversi modi, come "molte" rispetto a "uno": come "molte" rispetto al linguaggio che è "un" tipo di cosa; come "molte" rispetto a "una" singola parola (ad esempio, la parola "cose"); e come "molte" in quanto tipi di cose rispetto alla parola che "significa" quella cosa specifica

o la rappresenta. In quanto genere "inferiore", tutte le donne sono in relazione a ogni uomo come "molte" rispetto a "uno". Ciascuna di queste relazioni implica anche possibili relazioni da-uno-a-uno. La coppia umana è una relazione da-uno-a-uno come la relazione più transitoria dello scambio di un prodotto con il denaro e come l'idea saussuriana del segno come unione tra significante e significato. Le variazioni e i cambiamenti nella relazione da-uno-a-uno avvengono nell'ambito della relazione continuativa delle donne rispetto agli uomini, con la relazione della famiglia rispetto al padre. La madre stessa appare come "una" rispetto alla quale i figli/e sono potenzialmente "molti", ma viene sostituita dal padre come "capo" famiglia. Questi esempi di due pesi, due misure, come nei casi della sindrome di don Giovanni o della poligamia, implicano anche relazioni da-molti-a-uno. Un'altra relazione da-molti-a-uno è quella della proprietà rispetto al proprietario, che è an-data spesso di pari passo con la relazione della famiglia come "insieme di beni di proprietà" rispetto al padre3. Ci sono poi i sudditi rispetto al re, i collegi elettorali rispetto ai loro rappresentanti eletti, le nazioni rispetto ai loro presidenti, gli impiegati rispetto ai loro capi. Vi so-no poi stadi successivi da-molti-a-uno, come i cattolici rispetto al loro parroco, i parroci rispetto ai vescovi, i vescovi rispetto ai cardinali, i cardinali rispetto al papa. Gli eserciti sono, allo stesso modo, in relazione ai loro ufficiali e infine ai generali ecc. La sovrapposizione delle strutture uno-molti crea un meccanismo gigantesco. È probabile che, se mancasse di alcune parti, esso sa-rebbe più benefico, ma il rafforzamento tra le strutture patriarcali del "Primo Mondo" l'hanno reso più mortale e fallico che mai: con le sue armi nucleari, pronti ad annientare i molti e la sua immensa nuvola fallica a forma di fungo come dimostrazione che ha infine raggiunto la posizione dell'"uno".

Abbiamo sempre ragionato e agito dal punto di vista delle parole in relazione alle cose, del denaro rispetto alle merci, degli uomini rispetto alle donne. A me sem-bra che la spiegazione sia che l'economia dello scambio pone l'io individuale in primo piano e dà valore e importanza soprattutto all'"uno", la coscienza isolata astratta. L'importanza (e i modi di usare) la coscienza collettiva, la coscienza di gruppo e l'esperienza del do-no tendente verso l'altro sono state ignorate, perché abbiamo soltanto saputo come considerare noi stessi come punto di partenza, come individui isolati, e soltanto a chi ha avuto successo come individuo isolato sono stati dati autorità e credito per parlare. Questa centralità dell'Io è dovuta alla mascolazione, alla logica autoriflettente dello scambio e al modello gerarchico diretto dall'alto in basso; è fondamentale nel capitalismo, in particolare nell'immagine dell'eroe culturale del "produttore autonomo" (o dell'imprenditore). Gli accademici non sono più immuni da questa sindrome di altri, sebbene forse vorrebbero esserlo. La competizione, nei termini di un certo tipo di creatività e di acume (la cui ricompensa è il riconoscimento, l'autorità e il prestigio dell'Io), influenza la visione del mondo degli accademici altrettanto quanto farebbero se le ricompense fossero economiche. Il linguaggio è diventato uno strumento di potere, e anche coloro che se ne occupano sono generalmente non immuni dai modelli di conferma dell'Io che rendono possibile tale potere.

Anche le donne possono sviluppare un Io centrato su se stesso, ma noi rimaniamo spesso in certa misura orientate verso l'altro poiché ci viene imposto sempre il ruolo di nutrici dei nostri figli/e. Fuori o dentro il mondo accademico, la nostra visione del mondo è tendenzialmente più ampia di quella degli uomini, soprattutto quando non siamo intellettualmente subordinate al sistema patriarcale; con il piede in due staffe, è più facile individuare le contraddizioni. Ciò che vediamo è infatti che siamo metà nell'ombra, metà nella luce. Anche quando entriamo in competizione e abbiamo successo nell'ambito dell'economia dello scambio, come individui ci sentiamo spesso parte della massa di donne invisibili e non riconosciute.

La nostra posizione nell'ombra ci permette anche di vedere chi, oltre a noi, si trova al buio: la massa di per-sone, culture, donne, bambini/e e uomini relegati sullo sfondo dall'ego mascolato; accanto a essi vi sono tutte le cose, animali, creature, piante, invenzioni, l'arte e gli affetti domestici che sono stati oggetto delle nostre cure, uso e manutenzione nel corso dei secoli. Qui nell'oscu-rità vi sono tutti i tavoli che abbiamo lucidato, il mais che abbiamo macinato, i campi che abbiamo seminato, i cavalli, le mucche e i polli che abbiamo nutrito, la neve che abbiamo spalato, i tetti che abbiamo ricoperto di paglia, le catene di montaggio a cui abbiamo lavorato, i lavelli che abbiamo sturato, le danze che abbiamo danzato, i figli/e che abbiamo allevato. In tutte queste diverse attività, abbiamo conferito valore alle cose permeandole liberamente di sostanza vitale, che gli altri possono usare gratis. Anche quando la nostra attività ci è costata molto, umanamente o economicamente, i risultati del nostro agire secondo i principi delle pratiche di cura continuano a essere un'eredità gratuita per gli altri. L'e-redità consiste nella realtà materiale (la casa in cui si è vissute e di cui ci si è prese cura c'è ancora oggi; quella abbandonata si è deteriorata e non c'è più), nelle pratiche di cura, nei cuori e nelle menti che donano valore e che non sono mascolati.

L'Io del maschio notoriamente teme la morte e ama ciò che teme, poiché allontanando il suo sguardo dagli altri/e nega ciò che da essi/e ha ricevuto, e nega allo stesso modo l'esistenza e l'importanza che hanno per lui. Così è tendenzialmente predisposto a vedere se stesso come la sola fonte di ciò che invece gli è stato dato da altri, dalle masse umane che l'hanno preceduto, dai la-voratori/rici delle sue fabbriche e nei suoi campi, dalla madre, moglie, sorella, figlia e (a volte persino) dal fratello. Questo è comunque un po' più insolito, perché la rete di solidarietà maschile (Old Boys Network) e i legami dei maschi servono a intensificare il senso di potere e autonomia dell'ego isolato del maschio in quanto tale. Gli uomini imparano a riconoscere l'immagine auto-ri-flettente e a legittimarsi a vicenda. La posizione di "uno" funziona particolarmente bene nella negazione del fatto che si riceve dagli altri/e. L'Io concepisce ogni cosa in termini di prendere, o almeno di meritare ciò che ottiene (il meritare è un'altra trasposizione dello scambio, dal momento che esige un'equivalenza tra azioni passate e ricompense presenti). La centralità attribuita alla monetizzazione della manodopera nel capitalismo ha concentrato l'attenzione soltanto su quell'ambito della nostra attività e su quel tipo di rapporto umano che consiste nel "fare soldi". Dal momento che l'Io pen-sa alle proprie percezioni, al proprio mondo e alle proprie capacità come provenienti esclusivamente da se stesso, e non percepisce il suo carattere sociale artificiale, esso corre il rischio del solipsismo.

Guardare al linguaggio dal punto di vista del paradigma del dono è un'ottima cura al solipsismo. Se consideriamo ogni parola un sottoprodotto dei processi vitali, mediati linguisticamente, della moltitudine di persone prima di noi – che hanno permesso a queste persone di soddisfare i bisogni comunicativi l'una dell'altra e che ci sono state date liberamente – scopriamo di essere in contatto con milioni di altre persone donatrici e comunicanti, poiché da esse abbiamo ricevuto le nostre parole (e la nostra cultura e i nostri beni materiali). In realtà, il solipsismo nella nostra società non è tanto una posizione filosofica, quanto psicologica e politica. Esso spiana la strada alla crudeltà senza responsabilità, portando al nostro completo benessere di fronte al dolore altrui; la nostra compassione si inaridisce e le nostre anime diventano prigioniere dei nostri ego. Permettiamo ai nostri governi di prendere continuamente decisioni che uccidono altre persone o che le lasciano morire, perpetrando il genocidio economico e militare, mentre noi ce ne stiamo al sicuro nelle nostre case chiedendoci se quelle persone siano mai veramente esistite.

Chi parla di riuscire a crearsi una propria realtà è for-se ispirato inconsapevolmente dalla illimitata creatività e dalle proprietà magiche del dono del linguaggio, senza tuttavia riconoscere che la fonte del dono risiede negli "altri/e in generale". Alcuni orientamenti religiosi, sia la New Age che il fondamentalismo, tendono a sottrarsi al-la razza umana, in modo da non sentirsi impotenti tra i molti e poter pensare invece di far parte della posizione privilegiata dell'"uno". Quando cominciamo a porci in relazione soltanto con Dio (che spesso viene anch'esso visto come un "uno" mascolato e perciò simile a ciascuno di noi come individuo isolato) e non con la razza umana e il pianeta, il nostro atteggiamento tende a diventare megalomane e paranoico. Così agiamo isolatamente e senza compassione, ignorando tutte le persone al di fuori della nostra attenzione più immediata, la cui spiritualità, dopo tutto, è altrettanto grande o piccola della nostra. Se potessimo riformulare un concetto di noi stessi a partire dalla consapevolezza di aver ricevuto da altre persone sia del passato sia del presente, a cominciare dalle nostre madri, non saremmo più separati e impotenti; il considerarsi un Io mascolato (che non riceve da altri se non "meritandolo") ci rende effettivamente impotenti; perciò compensiamo in eccesso.

In ogni caso, il solipsismo viene confutato dal fatto che pensiamo usando il linguaggio che ci è stato dato da altri/e. Secondo una teoria fondamentalista della creazione, Dio avrebbe seppellito le ossa di dinosauri in giro per "mettere alla prova la nostra fede" nel racconto biblico della Genesi. Analogamente, i solipsisti potrebbero pensare che Lui/Lei avesse impresso il linguaggio nelle nostre menti per "mettere alla prova la nostra fede" facendoci sospettare che vi fossero altre persone nel mondo esterno. In realtà, la Terra è talmente vasta e variegata che non potremmo mai viverci come singoli; abbiamo bisogno della percezione comune dei molti per dare un qualche tipo di contesto reale alle nostre esistenze individuali. La società è una sorta di gigantesco occhio di mosca che, mettendo insieme le sue molte sfaccettature in una visione collettiva, riesce a vedere il disegno nel suo insieme. Questa visione è agevolata e trascritta in linguaggio perché possa mediare le nostre reciproche relazioni sociali. Tale trascrizione fornisce a sua volta una sorta di enorme timpano collettivo, che riecheggia rispondendo a ogni cosa di una certa importanza, che si trovi cioè a una certa soglia d'intensità oltre il livello individuale. Attraverso l'elaborazione collettiva, i valori culturali delle cose alle quali la comunità risponde sono immagazzinati nelle parole, tenuti in vita come doni disponibili per tutti/e, per un uso costante4.

Eppure, l'ego patriarcale guarda soltanto alle cose che rientrano nel suo ambito d'attenzione immediato, facendo risplendere su di esse la propria luce. Le persone al primo posto nel cosiddetto "Primo Mondo", nell'adotta-re questo tipo di ottica, ignorano il flusso di beni, denaro e ricchezza proveniente dal cosiddetto "Terzo Mondo", sia negli Stati Uniti che altrove. Quando non è la CIA a destabilizzare direttamente i governi del Terzo Mondo, o gli USA a finanziare tiranni fascisti contro l'interesse dei molti poveri, il patriarcato del "Primo Mondo" predomina economicamente. Mentre i nostri mass media e le nostre terapie attirano la nostra attenzione sul qui e ora, i nostri governi usano il nostro denaro, la loro influenza e i loro armamenti per distruggere le persone nell'ombra. Le grandi imprese si trasferiscono nel Terzo Mondo, provocando disastri ambientali ed economici, mentre alcuni di noi qui raccolgono i profitti e altri perdono il loro impiego. Quando le imprese sono incapaci di nascondersi si creano una copertura di bugie e la loro attività viene ridefinita "sviluppo". Dietro la maschera degli aiuti alle popolazioni in difficoltà, il "donare" viene messo in primo piano ma in modo falso, per nascondere l'amara attività di scambio e le pratiche di sfruttamento che vengono in realtà messe in atto. Questo ha l'effetto di dipingere la pratica del dono come qualcosa di diverso da ciò che è, e di identificarlo con gli uomini, in particolare nel governo e nelle grosse imprese, che sono i più lontani dalla verità. Spesso, questi uomini a livello individuale non si sono mai curati di nessuno, avendo sempre operato esclusivamente nell'ambito del meccanismo dello scambio.

I nostri bisogni del "Mondo occidentale" vengono in realtà soddisfatti in modo gratuito o a costi bassissimi (per noi) dai lavoratori del "Terzo Mondo", che non ricevono indietro l'equivalente del lavoro che svolgono. Le differenze nelle economie permettono infatti agli imprenditori d'intascare la maggior parte del prezzo che noi paghiamo, depositarlo nelle nostre banche, trasferendo ancora una volta quel valore dai "non abbienti" agli "abbienti", dall'ombra alla luce, dall'invisibile al visibile. Come in una chiusa su un fiume, il flusso di va-lore viene bloccato e trattenuto a un livello "superiore". Le economie del "Primo Mondo", nell'insieme, hanno ricevuto enormi importi dalle economie del "Terzo Mondo"; a livello individuale, potrebbe essere difficile la comprensione, o potremmo non vederne direttamente i benefici. Ma il fatto che qui circoli maggiore quantità di denaro è dovuto allo scambio ingiusto, uno scambio che in pratica finisce per essere un dono gratuito delle popolazioni del "Terzo Mondo" diretto a noi, del "Primo Mondo".

I nostri propositi di profitto a breve termine, che tanto bene si conciliano con il sistema dell'Io privilegiato, lasciano che le popolazioni nell'ombra (quelle del passato, quelle del presente nel "Terzo Mondo" e quelle del futuro, tutti/e i nostri figli/e) vengano danneggiate o distrutte dalla povertà, dall'inquinamento e dalle guerre, pagando per ciò che è in "luce", il nostro ininterrotto benessere. Il problema non è la depravazione morale o un'inclinazione psicologica verso l'ingordigia, ma una visione del mondo "normale", una struttura dell'ego e un sistema economico che ben si combinano e funzionano insieme a detrimento di tutti/e. Personalmente, non credo che siamo consapevoli del nostro comportamento, altrimenti ci fermeremo, o gli uni fermerebbero gli altri. La nostra coscienza collettiva è in stato di negazione, ed è quindi difficile che queste cose raggiungano la coscienza individuale. È per questo che abbiamo disperatamente bisogno di un mutamento del paradigma.

Il mandato di sopraffare e di essere "uno" possedendo e dominando viene trasmesso a tutti i livelli nella nostra società, e la scarsità creata artificialmente dai poteri dominanti per mantenere il sistema dello scambio intensifica gli svantaggi di chi non riesce ad adempiere al mandato. Non ci rendiamo conto che è logicamente impossibile che tutti possano essere "uno" in relazione ai molti e che la maggior parte degli uomini non ha a disposizione nessun altro programma di vita oltre la mascolazione in quanto tale. Quanto di significativo c'è nell'ambito del lavoro, dell'educazione e dell'intratteni-mento viene offerto quasi esclusivamente a chi è "abbiente", e tutte le persone che appartengono a questa categoria fanno comunque parte dell'economia dello scambio. Le bande criminali e la delinquenza sono l'uni-ca possibilità che hanno molte persone di seguire il programma di vita mascolato, sebbene anche la violenza contro le donne rappresenti ancora una scelta possibile per gli uomini che sentano la necessità di agire come "uno" dominante. Sebbene sia comunque necessario che tutte queste attività siano definite "sbagliate", è sol-tanto attraverso una revisione e una ridefinizione della società nell'insieme che il problema potrà essere risolto.

Dobbiamo cambiare il paradigma ed educare tutti/e alle pratiche di cura e non mascolare i nostri bambini maschi secondo una struttura dell'Ego che richiede predominio e privilegi per sentire di adempiere al proprio mandato d'identità di genere. Dobbiamo far riemergere il modello della pratica materna per tutti/e, educare anche i nostri figli maschi a essere donatori, sin dall'inizio. Dopo essere stati educati ad abbandonare la madre e aver appreso a non praticare le cure, come potranno imparare anni dopo a essere "buoni", seguendo le regole, la sintassi comportamentale derivante dalla denominazione di genere, la Legge di prevaricazione del Padre?

1 Ancora una volta dovremmo chiederci " per chi è, a chi è diretto?". Attribuiamo le caratteristiche delle cose alle parole e quelle delle parole alle co-se. Nell'esempio dei linguisti, "uomo" = adulto + maschio, "uomo" non ha la caratteristica di essere adulto o maschio, poiché "uomo" è una parola mentre un uomo non lo è. Offuschiamo la relazione tra cose e parole con l'idea di un concetto basato sulla parola, al quale possono essere attribuite (date) determinate caratteristiche. Trascriviamo le caratteristiche degli uomini con un'e-spressione basata su addizione e sottrazione, più e meno, che sono traduzioni quantificative del dare e prendere, creando un "significato" (mean-ing), "cru-dele" attività senza dono.

2 Mi sembra affascinante notare che i seni siano stati al tempo stesso degradati e oggettivizzati sessualmente nella nostra società. Fino a poco tempo fa, i nostri biberon avevano un aspetto fallico: un altro sintomo del nostro male, della sostituzione del modello materno con quello paterno.

3 I figli/e possono far parte di molte di queste relazioni a diversi livelli. La relazione di proprietà sembra simile ai complessi di Vygotsky: è da-uno-a-molti ma non dipende dalla somiglianza. Il figlio/a potrebbe essere proprieta-rio/a, ad esempio di giocattoli, già in tenera età ed essere a sua volta "di proprietà" del padre nella relazione familiare. I complessi associativi o la loro incarnazione nella proprietà e nella famiglia, potrebbero essere tenuti insieme anche da un "tono sensibile", come diceva Carl Jung (1906) a proposito del-l'associazione della parola e dei complessi psicologici. Il tono sensibile dei concetti sarebbe influenzato dalla mascolazione.

4 Talvolta, sebbene molte di noi raggiungano una competenza linguistica adeguata, la mancanza di accesso a esperienze di diversità culturale e all'edu-cazione nei suoi aspetti positivi, priva di molti di questi doni coloro che sono svantaggiate a livello economico.


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