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Capitolo
decimo "Gracias a la vida" Se prendiamo sul serio la pratica del dono, possiamo capire meglio la nostra relazione umana con la realtà come qualcosa che ci è dato. Credo che esista una certa "grana", una sorta di "struttura interna" della nostra esperienza, derivante dalla nostra capacità di dare e ricevere; ci siamo evoluti per percepire le cose su questo livello. Ad esempio, percepiamo le mele come oggetti tondi, rossi, che possiamo raccogliere sugli alberi e mangiare oppure dare ad altri perché ne mangino, e non come un'aggregazione di atomi, poiché non possiamo daree ricevere atomi. È concepibile che possiamo nutrirci di parti della natura in quanto atomi (per osmosi, forse), ma sarebbe molto difficile nutrirci reciprocamente con essi: portare gli atomi in un altro posto, maneggiarli e prepararli perché un altro ne faccia uso sarebbe piuttosto complicato. A livello della percezione, dell'integrità fisica e della destrezza con le quali ci siamo evoluti, possiamo prenderci cura l'uno dell'altro in modo relativamente facile con cose di determinati tipi e grandezze. Il linguaggio amplia questa "grana" donante e ricevente, dandole ulteriori dimensioni d'importanza collettiva, astrazione, generalità, immaginazione, spazio e tempo. Si potrebbe sviluppare una teoria della conoscenza che identifichi il sapere con la gratitudine provata dall'individuo in quanto destinatario dei doni dati dalla vita, dalla natura, dalla cultura e da altri individui. Nella gratitudine, rispondiamo alla nostra esperienza in corso e ricordiamo sia i doni che la loro fonte: il cibo che mangiamo e le parole che apprendiamo, le persone che ci donano queste cose e le culture dalle quali esse provengono. Chi viene privato delle cose buone della vita a causa della povertà, della crudeltà o della malattia, viene privato del suo diritto umano al sapere, al sentire le cose date dalla vita con gratitudine (la canzone Gracias a la vida di Violeta Parra esprime la gratitudine che tutti noi, ricchi o poveri, possiamo provare per i doni più essenziali della vita). Sfortunatamente, abbiamo trasferito la nostra gratitudine dalla madre al padre, e abbiamo riposto la nostra fede in questo cambio e nello scambio. Siamo, perciò, più consapevoli del padre e dello scambio; li conosciamo meglio di quanto conosciamo la pratica del dono, circa la quale abbiamo appreso a essere ingrati. Consideriamo lo "scambio" e l'Io necessari alla nostra sopravvivenza, e siamo grati dell'opportunità di partecipare al mercato. La ricettività creativa e la "grana" donante Se consideriamo passiva la ricettività (e ricettiva la passività), non comprenderemo mai le nostre interazioni con l'ambiente, il linguaggio, gli altri. In effetti, le cose hanno caratteristiche che noi consideriamo valide nella misura in cui possiamo rispondervi o possiamo riceverle (non esistono perché possiamo riceverle, bensì sono utili perché possiamo usarle per i nostri bisogni). Una mela ci appare rossa, rotonda e buona perché ci siamo adattati fisicamente, psicologicamente e socialmente a riceverla e a usarla creativamente. Ci siamo poi adattati fisicamente, psicologicamente e socialmente a ricevere creativamente la parola "mela", alla quale attribuiamo alcuni dei valori culturali delle mele, poiché essa le sostituisce come un dono nella comunicazione (sebbene la parola in sé non sia rossa, rotonda né buona da mangiare). Se fossimo stati in grado di dare e ricevere creativamente le mele come aggregazioni di atomi, ci saremmo probabilmente evoluti percependole come tali; non conosciamo nessun modo di maneggiarle o di darle l'uno all'altro su quel livello. Ci siamo invece evoluti fisicamente e culturalmente percependole rotonde e rosse, grazie anche al nostro linguaggio. Il tipo di percezioni sensoriali che abbiamo è pertinente al livello di complessità della nostra attività. Su questo livello, possiamo anche percepire i suoni come tali invece che come vibrazioni nell'aria. Le percezioni legate a una grana più sottile, ad esempio un'aggregazione di atomi o le azioni degli enzimi nel nostro processo digestivo, o a una grana più grossa, come la migrazione di famiglie o di gruppi umani, non sono a nostra disposizione in sé e per sé, poiché non conosciamo modi di dare o di ricevere que-ste cose creativamente. Gli strumenti e i metodi, come i microscopi e le statistiche sociologiche, sono stati effettivamente sviluppati per studiare gli eventi su diversi livelli di complessità con l'obiettivo di soddisfare i bisogni, che vengono essi stessi percepiti, alla fine, su un livello di quotidianità. L'obiettivo è generalmente anche quello di ricavare profitti: ad esempio, nel caso degli enzimi, per la ricerca di nuove medicine, o nel caso dei lavoratori immigrati per l'accesso alla manodopera a basso costo. Senza le informazioni che ci vengono dalle discipline specializzate, dobbiamo subire passivamente l'influenza di realtà di grana più grossa o più sottile. Una volta che il cibo entra nel nostro stomaco, non lo percepiamo più a livello di dono, ma possiamo soltanto lasciare agire passivamente i processi automatici dei nostri enzimi. Il nostro linguaggio e il mondo che percepiamo sono sintonizzati su un livello in cui noi possiamo dare e ricevere reciprocamente senza speciali strumenti, microscopi, telescopi, rilevamenti o statistiche. Se consideriamo questo livello prescindendo dal linguaggio, è il livello dei "dati sensoriali", il mondo come un dato; possiamo comunque solo considerarlo così quando abbiamo il linguaggio. Se il linguaggio ha origine nella comunicazione del dare e ricevere doni materiali, la sua grana è diventata, oggi, più sottile di quella dei doni materiali che possono effettivamente essere dati dagli umani vicendevolmente. Possiamo comunicare l'uno all'altro il colore rosso, il punto in cui si trova questo colore sul petto di un uccellino azzurro che cinguetta su un albero, ma non possiamo darci in realtà il colore o il luogo. Gran parte della ricerca filosofica e scientifica è rivolta alla natura dei nostri dati sensoriali e dei dati dell'espe-rienza complessa. Entrambi i tipi di ricerca, tuttavia, avvengono quando la modalità comunicativa del dare-e-ri-cevere si è già instaurata dalle pratiche di cura nell'infan-zia, e quando i ricercatori hanno già appreso la lingua. I dati sensoriali e l'esperienza diventano interpretabili dalle persone come dati quando le pratiche di cura hanno già instaurato la pratica del dare e ricevere di grana grossa e quando il linguaggio ha già dato loro le analisi di grana fine, prodotte dal processo vitale della collettività. L'estensione del numero di parole-dono, che comprende gli aspetti dell'esperienza che non possono esse-re dati direttamente, fornisce la grana fine collettiva che permette di concepire i doni non donabili come dati di grana più fine. Così, possiamo ricevere come dati il colore rosso, il punto in cui si trova in un determinato momento l'uccellino azzurro, la storia geologica, botanica, biologica e culturale del mondo nei dettagli, poiché possiamo parlarne e soddisfare i bisogni comunicativi l'uno dell'altro, formando le relazioni reciproche al riguardo attraverso il linguaggio, anche se non possiamo in realtà consegnarci tali doni. Vi sono diverse ragioni per cui alcuni tipi di dono non possono essere dati. Ad esempio, una montagna non può essere data perché è troppo grande; il colore rosso non è donabile in quanto tale poiché aderisce troppo saldamente agli oggetti di cui è parte: possiamo dare una palla rossa, ma non il colore rosso senza la pal-la, o la palla senza un qualche colore. Altrimenti, se il colore rosso di cui parliamo è una sensazione soggettiva, come un'immagine persistente, esso non potrà essere percepito dagli altri come tale, e ancora meno potrà es-sere consegnato loro. Alcune cose, come fatti ed eventi, non possono essere date direttamente poiché sono troppo transitorie e fugaci. Ad esempio, il fatto che l'uccello stia cantando sul-l'albero non può essere dato in quanto tale, poiché è fuggevole e gli elementi che lo compongono possono facilmente cambiare: l'uccello potrebbe smettere di cantare e volare via, creando uno, o molti, nuovi eventi. Possiamo tuttavia afferrare (ricevere) eventi fugaci come da-ti, e ridarli poi come doni, se mettiamo in relazione i loro elementi costanti e ripetibili (l'uccello, il canto e l'al-bero) con i doni sostitutivi, cioè le parole che la gente usa nella nostra società per darsi l'uno all'altro in loro vece. Combinando quelle parole in modo ordinato (insieme ad altre parole meta-dono di istruzioni sull'uso, o "marche", come "il" o "in" o "ando/endo"), facciamo sì che esse vengano anche date e ricevute l'una all'altra, formando doni sostitutivi (frasi) di durata relativamente breve che ci diamo fra di noi. In questo modo rendiamo donabili degli eventi non donabili, formandoci come comunità riguardo a essi. Attraverso i doni che diamo l'u-no all'altro, siamo in grado di ricevere creativamente le esperienze in continuo mutamento come un terreno comune, dato a tutti noi Dopo aver appreso come comunicare e come usare il linguaggio, non abbiamo più bisogno di mettere in pratica l'una o l'altra capacità in ogni momento. Possiamo mettere da parte il linguaggio e considerare i dati sensoriali semplicemente come dei dati, ma i doni del linguaggio sono generalmente già al loro posto quando ci avviciniamo al mondo come un dato senza di essi. E poi, mettere da parte il linguaggio è in realtà un procedimento per il quale è necessario il linguaggio stesso. Il mondo che viviamo è un dono e un dato perché noi possiamo dare e ricevere creativamente aspetti e parti di esso, elaborandoli grazie alla nostra capacità di ricevere e dare i doni sostitutivi verbali (e non verbali) ai quali i dati cedono il loro valore per la comunicazione (forse la maggior parte delle cose non danno in realtà doni l'una all'altra, ma siccome abbiamo il modello del dono possiamo interpretarle in questa luce). Anche cedere il passo, come il ricevere, può essere creativo e attribuire valore all'altro. Le cose cedono il passo alle parole come doni perché noi glielo facciamo fare1– diamo loro un sostituto – ma al tempo stesso facciamo sì che anche le parole facciano ciò che noi vogliamo. Cedere il passo attribuisce valore all'altro, nello stesso modo in cui il dare implica il valore dell'altro. Il valore dato alle parole dalle cose, che lasciano così che la loro posizione in quanto doni venga presa, si unisce al valore che la gente attribuisce alle parole come mezzi per soddisfare i bisogni comunicativi degli altri; le parole sono così destinatarie delle attribuzioni di valore almeno da due direzioni (in aggiunta al loro valore come posizione nella langue). Mettendosi da parte tutte insieme nel presente, lasciando che il loro posto venga preso dalle parole in diverse combinazioni, le cose appaiono in relazione l'u-na con l'altra e avere momentaneamente più valore rispetto a ciò che le circonda, e così noi diamo a esse la nostra attenzione. La mediazione linguistica di una percezione o di un'e-sperienza costituisce un dono secondario che ci dà un accesso comune alla percezione o all'esperienza come valori o come beni che soddisfano i bisogni materiali o comunicativi. Noi possiamo quindi agire in diversi modi rispetto al bene, che possiamo dare e ricevere reciprocamente, consumare da soli, fare a turno nell'usare, combinare con altri beni, scomporre, mettere da parte per un momento successivo ecc. Possiamo anche semplicemente soddisfare i bisogni comunicativi rispetto a qualcosa decidendo di essere chi siamo in quanto "percettori" co-muni di tali bisogni; ad esempio "percettori" di mele. Quando conosciamo una lingua possiamo anche soltanto pensare alle mele nella loro sostituibilità senza metterle direttamente in relazione alle parole. Continuiamo a volgere il nostro pensiero verso la comunità2 perché le potenzialità per i bisogni comunicativi e per le parole-dono che li soddisfano sono sempre presenti. Il valore dato dalle cose alle parole e dalle parole alle cose a livello del lessico (langue) è di grana un po' più grossa rispetto al valore attribuito attraverso le frasi. In effetti, come le cose, le parole sono doni generali della cultura che vengono ricevuti creativamente dalla cultura, come anche dagli individui (poiché i molti sono più che un semplice insieme di "uni"). A parte i casi particolari di denominazione, definizione e insegnamento del linguaggio, l'uso di parole combinate in frasi fornisce i doni di alcuni individui ad altri che li ricevono creativamente: la soddisfazione dei bisogni comunicativi e le attribuzioni di valore, di grana più sottile di quella delle parole prese singolarmente. Vi sono in realtà due processi diversi in corso: il dono meta-linguistico delle parole attraverso denominazione e definizione (sul quale sono costruiti la mascolazione e lo scambio) e il linguaggio che fa uso di processi del dono per facilitare la comunicazione in corso, lo sviluppo del soggetto e dell'og-getto sociali, della comunità, del suo mondo e prospettiva del mondo. L'esistenza di livelli diversi permette la pratica del dare e ricevere individuale sulla base del dare e ricevere sociale, un'interazione di "grane". Le cose valide o importanti richiedono la nostra attenzione ricettiva-creativa; apprezziamo il valore che già hanno e al tempo stesso gli attribuiamo valore. L'apprez-zamento e l'attribuzione sono simili al ricevere e dare creativi; la gratitudine è un aspetto di entrambi. Usiamo le cose per soddisfare i bisogni e attribuiamo un valore agli altri (o a noi stessi) soddisfacendo i bisogni. I molti valori del mondo per la comunità degli umani sono registrati nel linguaggio; e un processo simile fa sì che il valore di scambio delle merci sia registrato nel denaro. Quando riceviamo la soddisfazione dei nostri bisogni da parte degli altri (e la conseguente implicazione del nostro valore per loro) possiamo apprezzare ciò che ci è stato dato, e apprezzare gli altri come fonte, con gratitudine. Possiamo anche ignorare la fonte, o vedere in noi stessi l'origine del nostro bene. Nella comunicazione linguistica (e in altre comunicazioni basate sui segni) possiamo condividere uno stesso punto di vista e attribuire valore o dedicare attenzione alle stesse cose, scegliendole perché pertinenti a partire dalla nostra esperienza in corso e usando i doni sociali che prendono il posto di quei doni o dati materiali (o immateriali). Ciò a cui diamo valore è al centro della nostra attenzione; e noi rivolgiamo la nostra ricettività creativa verso di esso; ciò a cui non diamo valore rimane al di fuori della nostra attenzione primaria. La nostra motivazione per dare valore a qualcosa nasce dai nostri bisogni e dal-la sintesi delle precedenti esperienze e delle precedenti attribuzioni e apprezzamenti di valore. Il mezzo collettivo per attribuire valore, che è un dono collettivo (la parola), è sospeso nelle nostre menti ed è di facile accesso perché ne facciamo uso nell'esperienza in corso qualora ne sorga il bisogno. Tale bisogno è interpersonale, in origine, sebbene possiamo anche usare le parole per soddisfare i nostri bisogni comunicativi comunitari quando pensiamo da soli, attribuendo un valore media-to socialmente a diverse parti della nostra esperienza, e mettendole in primo piano nel presente quando ne abbiamo bisogno. Il valore, un meta-dono Il valore può essere interpretato come una sorta di meta-dono, un dare attenzione a qualcosa così da provo-care o variare il dare ulteriori doni. È la scelta di una co-sa sulla quale viene centrata creativamente un'attenzione ricettiva. Spesso attribuiamo anche all'oggetto della nostra attenzione la caratteristica "qualcosa per gli altri e, quindi, per noi stessi". Dal momento che la pratica del dono è rimasta invisibile e non apprezzata, non abbiamo pensato a collegare il valore al processo del dare, perciò è rimasto un mistero. Il valore di scambio ha preso il sopravvento sul concetto di valore, divenendo il suo "esemplare". Nello scambio, l'aspetto di orientamento verso l'altro della pratica del dono non svanisce, ma vie-ne nascosto e strumentalizzato per gli scopi dell'ego. La pratica del dono è inserita nello scambio in modo tale per cui sembra contraddirsi da sé. Questo pas doble logico esige che noi paragoniamo il nostro soddisfare i bisogni degli altri al loro soddisfare i nostri, ed entrambi a uno standard che è comune a tutti. Tutti i bisogni dipendono quindi da questo processo contraddittorio per il loro soddisfacimento. Lo scambio diventa onnipresente nella vita, e noi gli diamo valore come requisito indispensabile per la sopravvivenza di tutti. Facendo questo, nascondiamo e screditiamo la pratica del dono, negando così l'aspetto di orientamento verso l'altro del valore basato sul dono. Quando questo aspetto viene reso invisibile, il valore non può essere capito correttamente, e i legami tra valore di scambio e altri valori culturali rimangono nascosti e negati. Il valore è diviso e conquistato. Solo dando va-lore alla pratica del dono possiamo cominciare a risolvere l'enigma del valore, recuperando il suo contenuto d'orientamento verso l'altro3. Il valore è fondamentalmente uno strumento di (ri)di-stribuzione dei doni. È un dono di energia e di attenzione rivolte ai doni, che ci aiuta a sceglierne alcuni rispetto ad altri per gli altri e per noi stessi. Dando eccessiva enfasi al valore di scambio, stravolgiamo questo meccanismo collettivo di distribuzione, allontanandoci dal dare e dai bisogni e rivolgendoci invece al numero relativamente limitato di cose che hanno valore per i processi di scambio e per il mercato. L'egoismo e il valore (e l'attenzione) che diamo a esso possono essere visti come effetti del prepararsi a quei processi e farne pratica. Ci siamo abituati a vedere le cose al contrario, come se lo scambio e il mer-cato fossero esiti naturali dell'egoismo e dell'avidità umane. Ed è proprio questa visione e i valori che essa promuove (la ri-distribuzione di doni) che contribuisce a tenere in piedi il monopolio del processo di scambio. Le modalità del valore Il valore viene sia attribuito sia apprezzato: dato gratuitamente alla gente, alle cose e alle parole, e da esse ricevuto. Può comportare un processo di auto-stimolazio-ne, nel senso che diamo valore a qualcosa scegliendolo, concentrandoci su di esso; così volgiamo la nostra ricettività creativa su di esso, apprezzando il suo valore. Potremmo poi dimenticare il nostro intervento nell'attribu-zione che era stato dato gratuitamente. Scegliere una cosa tra le altre, metterla in primo piano, adattarla ai bisogni e darla ad altri per i loro bisogni sono processi attraverso i quali attribuiamo valore a qualcosa e apprezziamo il suo valore. Come conseguenza questo valore viene anche trasferito ad altri e ai loro bisogni, dal momento che diamo loro delle cose che soddisfano i loro bisogni (possiamo anche attribuire-apprezzare il loro valore direttamente, semplicemente dandogli la nostra attenzione). Dare a qualcosa un dono-sostituto, includendo reciprocamente altri al riguardo, dà e riconosce il valore di quel tipo di cosa e degli altri reciprocamente inclusi. Ci sono quattro modalità principali di attribuzioneapprezzamento del valore: le pratiche di cura, il linguaggio, la mascolazione e lo scambio. Credo che due tra questi siano la norma (le pratiche di cura e il linguaggio) e due siano distorsioni (la maschilizzazione e lo scam-bio). Guardando alla norma possiamo comprendere meglio le distorsioni; e guardando alle distorsioni e alle loro conseguenze, possiamo allo stesso modo comprendere meglio la norma. L'attribuzione di valore delle pratiche di cura La felicità – non la ricerca della felicità – non è soltanto un diritto ma una necessità epistemologica, se la gratitudine è un archetipo fondamentale per la conoscenza. L'"afferrare" è generalmente associato alla comprensione e ritenuto necessario per la conoscenza, ma non è altro che una piccola parte specifica del ricevere, resa necessaria dalla scarsità. Privando la gente dell'abbondanza, della possibilità di ricevere e di dare, la priviamo del suo processo umano. L'homo donans (e recipiens) precede l'homo sapiens4. Questo perché quello che conosciamo sono i doni, e la nostra conoscenza è la risposta di gratitudine a essi, che si tratti del latte delle nostre madri, dei dati empirici, delle parole e frasi, degli argomenti di conversazione, degli atti benevoli, dei neonati, dei temporali e della pioggia, delle nuove macchine, delle opere d'arte o delle torte al mirtillo. (Siamo grati di poter conoscere le cose negative, come anche quelle positive, perché quella conoscenza ci aiuta ad affrontarle). Se una persona soddisfa i nostri bisogni possiamo apprezzare il valore che ci ha dato e attribuirle valore. Parte della nostra gratitudine è una disposizione ad avere cura delle cose che hanno avuto particolare cura di noi. Non lo facciamo per uno scambio ma, per il momento, assumendo il donatore come modello, per dare a nostra volta cure. Le pratiche di cura implicano un trasferimento di va-lore al ricevente. Il donatore spesso si auto-cancella come fonte, facendo così sembrare che il valore o l'impor-tanza del ricevente sia la ragione del dono. Ad esempio, una madre crede di avere cura del neonato/a perché il neonato/a è importante, non perché la madre gli/le attribuisce valore; tuttavia, se la madre non gli attribuisse valore e non si prendesse cura di lui/lei, il neonato/a morirebbe. Il valore è quindi una proiezione utile, sia dell'individuo sia della cultura e della comunità. La vita quotidiana è composta di attribuzioni di valore innumerevoli ed è forse questa ragione che ha (finalmente) attirato di recente l'attenzione dei filosofi. Diamo valore al prossimo tra l'altro suscitando, rispettando, intensificando, specificando, educando i suoi bisogni. Le madri, ad esempio, possono rimanere affascinate dal fatto che i propri figli comincino a mangiare cibi solidi, facendo diverse prove per capire le loro preferenze. L'insegnamento in sé può essere visto come un modo d'intensificare il bisogno degli altri di conoscere diversi tipi di cose. La conoscenza dei mezzi per praticare le cure, che un tempo si tramandava in linea materna dalle nonne alle madri e alle figlie, attribuiva valore ed era apprezzata nella cultura materiale. Questi valori e le maniere di attribuirli si sono persi nel momento in cui le pratiche di cura sono state assorbite dallo scambio. Oggi è la pubblicità a educare i nostri desideri e non l'amore, l'intelligenza o l'inventiva delle nostre nonne volta a soddisfare i bisogni e orientata verso l'altro. Il valore del ricevente non è implicato direttamente o in modo materno, ma solo attraverso il mercato, come "meritevole" o responsabilità dello Stato custode. Attribuiamo valore alle cose che riteniamo possano essere particolarmente utili per gli altri o per noi stessi; quindi ne apprezziamo il valore5. L'attribuzione di valore è di per sé un dono, che viene dalla nostra disposizione a dedicare attenzione a qualcosa, ed è un elemento della nostra gratitudine. Al rovescio, l'apprezzamento (di cui la gratitudine è un aspetto) è un elemento dell'at-tribuzione di valore. I due comportamenti sono strettamente connessi fra loro, sebbene l'attribuzione sia più attiva e rifletta il donare, mentre l'apprezzamento è più ricettivo e riflette il ricevere6. L'attribuzione di valore attraverso il linguaggio Le cose diventano pertinenti per gli umani a seconda dell'uso che ne viene fatto in relazione ai bisogni. I bisogni proliferano e si diversificano secondo il modo in cui vengono soddisfatti. Vengono anche, in una certa misura, identificati proprio in base alle cose che li soddisfano7. Nel linguaggio, attribuiamo parte del valore qualitativo co-muni-cativo di un certo tipo di cosa a una parola che prende il posto di un esemplare (generalmente) non verbale e che funziona da dono sostitutivo con la funzione di formare relazioni e interazioni umane. La cosa o il tipo di cosa cede il passo come possibile dono momentaneo e la parola (che ha anche un valore-come-posizione nella langue) diventa il veicolo del suo valore nella comunicazione, cioè nello stabilire o modificare le relazioni umane riguardo quel tipo di cosa. La parola diventa il veicolo del valore delle cose nella loro funzione di stabilire o modificare le relazioni umane. Visto che ogni tipo di cosa (e perciò ogni parola) ha un va-lore qualitativamente diverso da tutti gli altri nel suo es-sere in relazione con bisogni umani diversi8, la combinazione di alcune parole secondo gli schemi del dono in una qualsiasi enunciazione o proposizione può anche servire a comunicare (dare) informazioni specifiche. Noi scegliamo parti della nostra esperienza come dati ai quali dare attenzione, e diamo nuovi doni risistemando i vecchi. Soddisfiamo i bisogni comunicativi dell'a-scoltatore sul momento e, in questo modo, anche i nostri bisogni. Possiamo ricordare ciò che era stato scelto ed enfatizzato nella nostra co-municazione, immagazzinando tali informazioni per applicarle a futuri bisogni comunicativi o materiali. Non i codici, ma la logica e la pratica del dono sono alla base della nostra comprensione. Un codice è soltanto un insieme di marche astratte. Nella crittografia serve a mascherare, piuttosto che a esprimere la verità. Il linguaggio, come la vita, è mosso dal bisogno. La capacità di soddisfare i bisogni degli altri è l'aspetto della vita che crea la società e ci permette di evolvere culturalmente e alla fine, forse, biologicamente. In altre parole, usiamo i nostri doni per un altro scopo: non per avere indietro un equivalente, come nello scambio, ma per alterare la relazione degli altri con l'ambiente, presentando una cosa come un va-lore per loro nel presente; questo ci permette di condividere la nostra relazione con loro rispetto a questa co-sa. Ciascuno di noi sa quello che l'altro conosce o riconosce come un valore sul momento; selezioniamo quella parte della nostra esperienza, in quanto esseri sociali, sulla base di ciò che è stato selezionato per soddisfare i bisogni di altri prima di noi, come mostrato nel lessico. Con i doni sostitutivi che ci diamo reciprocamente, attribuiamo valore sociale alla stessa cosa insieme per il momento, e possiamo così coordinare le nostre azioni e i nostri comportamenti riguardo a essa9. Le selezioni che facciamo nelle nostre esperienze in corso sono simili al processo di selezione che svolgiamo nello sviluppo dei concetti. Nel discorso, tuttavia (perché stiamo soddisfacendo bisogni comunicativi presenti e contingenti, invece che bisogni di processo generale del concetto o i bisogni meta-linguistici della definizione), stiamo praticando il dare doni su molti altri livelli. Le nostre esperienze e interazioni in corso danno importanza ad alcune cose verbalmente e non verbalmente (rendendole "dati") e di conseguenza ne mettono continuamente altre sullo sfondo (rendendole "non dati" nel presente). Persino nel dire una cosa tanto semplice come "la bambina ha colpito la palla" stiamo selezionando parte di un'esperienza complessa: avremmo potuto dire "il cielo era azzurro sul campo da baseball" e/o "un uccellino stava cantando"; se poi proseguiamo dicendo "la palla ha colpito la finestra", stiamo costruendo sui dati che sono i doni di "la bambina ha colpito la palla". I bisogni (e i desideri) comunicativi sorgono per instaurare rapporti reciproci (confermando il valore l'uno per l'altro) riguardo a un'attenzione specifica su aspetti determinati di cose che per l'altra persona potrebbero non essere ancora evidenti. Potremmo infatti considerare che la nostra attenzione ci dice continuamente "lì potrebbe esserci un dono". Soddisfacendo i bisogni comunicativi degli interlocutori si focalizzano alcuni aspetti di una determinata situazione rispetto a loro; gli si dà un primo piano apprezzato comune e uno sfondo non apprezzato (più o meno) comune. Insieme, parlanti e ascoltatori considerano pertinenti alcuni elementi di una situazione e ne considerano altri non pertinenti; danno attenzione, partecipano, alle stesse cose. Ciò che è stato messo sullo sfondo in un caso può anche passare in primo piano in un altro caso. Quando soddisfiamo i bisogni comunicativi degli altri riguardo a una cosa – qualcosa che abbiamo considerato un dono per loro in relazione a noi – gli altri vengono portati a partecipare con noi nel presente10. Si stabilisce una relazione condivisa riguardo al dono che il parlante ha dato ma che anche l'ascoltatore che "ha" la maggior parte delle stesse parole avrebbe potuto dare (in questo è diversa dalla soddisfazione dei bisogni materiali, nella quale diamo qualcosa che l'altra persona non ha). La relazione del-l'ascoltatore è stabilita dal parlante ma, forse come potenzialità non espressa, ha la stessa influenza sul comportamento rispetto alla parte manifesta della comunicazione. Un'interazione condivisa è anche la matrice dello scambio in cui gli altri mostrano di dare valore al nostro prodotto cedendo una somma equivalente di denaro. Così il denaro (con la sua caratteristica sociale astratta) diventa il modello nascosto ma potente per la nostra comprensione del linguaggio e della vita. E questo non soltanto perché il denaro è "figlio" del linguaggio, ma anche a causa della effettiva affinità dei processi: dare valore dando qualcosa (altro). Sia il parlare che l'esperienza possono dare origine a nuove attribuzioni di valore e a nuovi bisogni comunicativi. Per di più, i tipi di cose cui prestiamo attenzione, i tipi di valore che scopriamo (e attribuiamo) dipendono da una sintesi in corso delle nostre esperienze di vita precedenti, che possono essere molto simili o molto diverse da quelle degli altri. Ciò che appare non pertinente in un dato momento può diventare pertinente in un momento successivo, o per un'altra persona (e riguardo a qualcos'altro), così ogni cosa vale sempre potentior (anche se esclusa nel presente perché non pertinente). Questa possibilità rende l'esperienza un giardino del-l'Eden immanente, del quale raccogliamo e condividiamo i frutti poco alla volta, quando ne abbiamo bisogno, cogliendone nella loro fantastica abbondanza. La scarsità materiale nella quale molte persone vivono nasconde la natura di dono della vita, bandendo queste persone al di là del muro del giardino. Ristabilire l'abbondan-za permetterebbe di conferire nuovamente valore secondo l'esperienza individuale e collettiva, invece di contrapporre l'individuo alla collettività (come avviene nello scambio fondato sulla scarsità). Le nostre discipline economiche potrebbero allinearsi con la parte del nostro linguaggio che umanizza e crea i legami, invece di contrapporvisi a causa dell'eccessivo valore che (inconsciamente) attribuiamo collettivamente alla definizione e alla mascolazione. L'attribuzione di valore mascolato Il tipo di Ego che serve allo scambio è in realtà l'Ego mascolato. Il sistema di valori che promuove questo Ego lo rafforza attraverso le ricompense e le penalizzazioni economiche, l'avere o il non avere tipi e quantità di proprietà; e l'Ego è soggetto alla pubblicità che educa i suoi desideri. Può sembrare che il valore venga trasferito a coloro che ricevono la soddisfazione di questi desideri o bisogni attraverso il mercato, ma in realtà viene trasferito al venditore dell'oggetto, che ha portato il consumatore a comprare il prodotto manipolando la verità. Il tipo di va-lore-come-posizione acquisito da una persona mediante "averi" comparativi può essere visto come uno status e non soddisfa realmente i bisogni soggettivi dell'individuo basati sul dono. Il consumatore ha bisogno di avere sempre di più, perché il suo avere non dà in realtà valore a lui, ma dà maggiore valore economico al venditore. Mentre può essere vero che senza uno strumento tecnologico (o utensile fallico) gli uomini potrebbero non conoscere il mondo oggettivo (perché loro, e lo strumento, stanno al di fuori della "grana" del dare e ricevere), noi donne stiamo più spesso all'interno di questa "grana" grazie al nostro ruolo di nutrici. Siamo perciò più inclini a trasformare il nostro sapere in gratitudine a partire dai dati della nostra esperienza. Senza l'oggetto, non esisterebbe lo strumento; e le donne sono oggetto oltre che soggetto. Ad esempio, il pene e la vagina sono gli archetipi psicologici dello strumento e dell'oggetto del sapere. Se lo scopo della sessualità è altro rispetto al dare e ricevere, al soddisfare i bisogni l'uno dell'altro, il "sapere" strumentale tratta l'"oggetto" come se fosse una cosa non vivente, ricettiva in modo non creativo, da essere "penetrata" con la forza. La "gratitudine" provata in questo caso dal "sapiente" fallico mascolato riguarda soltanto il rafforzamento del suo Ego, in una posizione di superiorità uno-molti di dominio della terra; non è gratitudine o sapere orientato verso l'altro, ma in realtà si avvicina di più al ricevere il passaggio di proprietà dello scambio. Gran parte della conoscenza fallica strumentale del mondo oggettivo si è ispirata alla spinta al profitto del-l'Ego e riflette i limiti della prospettiva con la quale è stata interpretata. Mettere sullo sfondo i bisogni umani dei molti gli ha dato il potere distruttivo dell'acquisizio-ne con la forza o dell'indifferenza non curante. Chi continua a vedere la realtà attraverso la "grana" del dare si contrappone ai prodotti del sapere scientifico che minacciano la possibilità che tutti diano e ricevano. Nessun uso – che si dice benefico – di tecnologia nucleare, manipolazione genetica o veleni chimici può far diventare di grana donante gli aspetti negativi di queste tecnologie, o convincere chi si interessa ai bisogni che si tratti realmente di doni per l'umanità. Le donne possono conoscere con gratitudine la vagina, l'"oggetto", internamente senza lo strumento fallico.È interessante pensare che se le donne fossero "cose" reificate, la vagina corrisponderebbe alla "cosa in sé" presumibilmente sconosciuta dai filosofi. Poi nel sesso diver-rebbe "per l'altro/a e perciò in effetti anche per noi". In quanto curatrici di cose per gli altri, conosciamo le cose meglio di chi non soddisfa i bisogni degli altri attraverso di esse. Possiamo richiamare l'attenzione sulle piante curative, sulle pratiche di cura, come anche sui difetti delle argomentazioni a favore della violenza. La nostra energia vitale è stata spesso rivolta alla cura e al mantenimento dei corpi degli altri e dei nostri, senza scambio e senza una definizione mediatrice o una valutazione basate sullo scambio. Il valore di scambio Il valore di scambio è valore comunicativo (linguisti-co) nel genere di comunicazione distorta che è lo scam-bio. Lo scambio è come la definizione che individua qualcosa riguardo al suo nome e quindi rispetto a tutte le altre cose. Il fatto che una cosa abbia un nome dipende dal valore culturale di quel tipo di cosa per gli esseri umani; il nome specifico che ha dipende dall'insieme della langue. Questa relazione differenziale è stata "tradotta" quantitativamente nell'ordine dei prezzi. Il processo linguistico di attribuzione di valore viene usato anche nello scambio, quando ognuno di noi dà lo stesso valore ai prodotti che vengono scambiati in base al loro valore sociale generale. Lo facciamo ogni volta che diciamo: mezzo chilo di fagioli = un dollaro. Il fatto che una persona ceda i fagioli e un'altra ceda il denaro dimostra che queste due persone danno lo stesso valore ai fagioli e al denaro. I fagioli hanno quel prezzo in funzione di tutti gli altri scambi che avvengono sul mercato in quel periodo, in particolare quelli riguardanti i fagioli. Analogamente, l'uso di parole dipende dal modo in cui esse sono usate da altri che parlano quella stessa lingua. Il principio dello scambio è do ut des (do perché tu dia). Il principio della comunicazione basata sul dono è simile, eccetto per la divergenza di fondo costituita dal fatto che la pratica del dono è mutuamente inclusiva mentre lo scambio è mutuamente esclusivo. Nella comunicazione basata sul dono, una persona dà – in modo che l'altra possa dare – attenzione e valore all'argomen-to, come anche al parlante e all'ascoltatore stessi. Sia il parlante sia l'ascoltatore hanno bisogno di un mezzo per essere in grado di dare valore a qualcosa insieme; le parole servono a tale scopo, ed è dando le parole che gli interlocutori danno il valore. Concordare sul prezzo permette a coloro che scambiano di dare un valore equivalente. Gli effetti della co-muni-cazione e l'attribuzione dello stesso valore da parte di parlanti e ascoltatori e da parte di venditori e compratori sono diversi, perché lo scambio è mutuamente esclusivo mentre la comunicazione verbale è mutuamente inclusiva. Nello scambio, il principio del do ut des materiale richiede che il ricevente restituisca l'equivalente al donatore; la pratica del dono soddisfa invece unilateralmente il bisogno dell'altro. Con l'altruismo noi attribuiamo lo stesso valore, così da stabilire relazioni comuni tra noi come esseri umani riguardo alle cose. Nello scambio questo altruismo vie-ne usato invece per servire il nostro egoismo. L'affinità stessa dei due processi ha nascosto il lato altruistico di pratica del dono della comunicazione dietro la facciata dello scambio, poiché lo scambio è ormai un'attività estremamente importante per tutti nella nostra società. Diamo soltanto a condizione che l'altro dia l'equivalen-te, perché vivendo in un sistema basato sulla scarsità e il mercato consideriamo noi stessi in funzione della quantità di cose (o di valori di scambio) necessarie alla nostra sopravvivenza. Ogni cosa che diamo o spendiamo, ogni valore che attribuiamo, sembra togliere qualcosa da quella totalità, valutabile nel salario, il "vivere" che ci guadagniamo. Lo scambio è come una lingua in cui le cose sono in realtà "cedute" nel momento in cui le parole sono pronunciate (e anche le parole sono "cedute"). Pensiamo sempre a calcolare se abbiamo o siamo abbastanza, come se avessimo un'ansia da prestazione (o competenza). Esiste una valutazione del valore economico degli esseri umani, un nome economico (mascolato), un salario, che ci è "da-to"; sembra che le persone non esistano o non meritino di esistere se non sono mascolate, e se non esistono non meritano di mangiare. Anche se forse possono comunque mangiare, se solo sono in relazione con un "uno" mascolato, come nel caso della moglie. Sia individualmente sia socialmente investiamo la nostra energia in ciò che consideriamo abbia valore, anche se questo andrà a nostro discapito o degradazione o a quelli degli altri. Ad esempio, investiamo energia e denaro in droghe e violenza; gli individui attribuiscono va-lore a queste attività, forse per il piacere fisiologico e il momentaneo rafforzamento dell'Io che gli procurano. Anche se la società non approva consapevolmente le attività di questi individui, dà però valore al tipo di Ego con il quale queste attività coincidono. Infatti, l'edoni-smo va d'accordo con la mascolazione, con l'orienta-mento verso l'Ego e non verso gli altri. Sembra anche che accumulando grandi quantità di capitale si possa avere più valore degli altri in modo praticamente illimitato; una considerazione che fornisce all'Ego artificiale il tipo di riconoscimento di cui ha bisogno per accumulare di più. Il potere sugli altri, che sembra una prerogativa della posizione di esemplare, viene usato per fornire le ricompense che motivano l'Ego mascolizzato. Le interazioni basate sulla pratica del dono soddisfano tuttavia in modo più genuino e vengono spesso cooptate come "bottino" del successo. Il valore di scambio sembra quello più valido o persino l'unico tipo di valore possibile; la società che si basa su di esso dà a intendere di provvedere al bene generale promuovendo come obiettivo la somma dei valori orientati verso l'Ego. Questo esclude inevitabilmente i valori e la gente orientati verso l'altro, come anche coloro che non hanno successo. La prospettiva della rete di solidarietà maschile che vede l'homo economicus come porta-tore del bene generale è stata sfidata di recente dalle economiste femministe11. Io credo che considerare il va-lore di scambio l'unico tipo di valore o quello più importante ci impedisce di criticare in modo genuino e radicale l'homo economicus. In alternativa, propongo di considerare principale e primario il valore culturale delle cose per gli umani in quanto creato attraverso la pratica del dono ed espresso nel linguaggio, che funziona secondo la pratica del dono. Il valore di scambio può così essere visto come una distorsione del processo di attribuzione del valore. La (ra-presentration) Il linguaggio continua a mantenere la nostra modalità di pratica del dono anche mentre facciamo le nostre esperienze all'interno di un'economia basata sullo scam-bio e perciò non comunichiamo più materialmente. La tecnologia, motivata dal profitto, espande la nostra percezione in un'altra direzione, oltre la pratica del dono verso una sorta di oggettivazione disumana: essa sbircia sotto il livello degli eventuali doni, per rilevare impressioni intese come reazioni elettrochimiche, e al di sopra del livello dei doni attraverso i telescopi, permettendoci di vedere le origini dell'universo; lavora anche contro la comunità donante, facendo uso della sua sapienza per creare armamenti convenzionali, biologici, chimici e nucleari. Mentre i livelli di "realtà oggettiva" scoperti dalla tecnologia di là della pratica del dono possono talvolta essere utilizzati per un impegno umano verso la soddisfazione del bisogno, sono anche usati per causare gravi danni; sono imprese patriarcali mosse dallo scambio (e non dal dono). Abbracciando la grana non donante, che dà effettivamente buoni redditi ai ricercatori nel campo dell'economia dello scambio, gli accademici possono screditare chi sceglie la grana donante in quanto "realista ingenuo" (a causa della scarsità, i "realisti ingenui" generalmente non hanno comunque accesso alla tecnologia che gli permetterebbe di vedere le cose in modo diverso). Quando il "presente" è stato svuotato della pratica del dono dallo scambio, il contatto tra il linguaggio e la vita si è oscurato. Così è la rap-present-azione, e non il patriarcato, che appare come la ragione della tirannia agli occhi dei pensatori post-moderni. Il valore linguistico ed economico hanno entrambi a che vedere con la rappresentazione, cioè con la comunicazione attraverso sistemi di doni sostitutivi. Dobbiamo riconoscere quello che hanno in comune per poter capire il valore. Solo quando ho considerato questi elementi co-muni ho cominciato a vedere la mascolazione come una diramazione della rappresentazione: una errata rappresentazione dell'identità del bambino, che lo forma a sua immagine e somiglianza, sopravvalutandolo proprio a causa di questo processo e infine trasmettendo questo meccanismo nella società in genere (è come se una parte rotta del proiettore cinematografico fosse proiettata sullo schermo insieme al film). La mascolazione è una distorsione del processo di attribuzione del valore, alla pari con lo scambio e che avviene prima di esso; attraverso lo scambio e la misoginia, essa alimenta la rap-present-azione, dando eccessiva enfasi agli aspetti di superiorità gerarchica e dominanza "uno-molti" e negando la pratica del dono. Il valore di scambio è valore di cura (o di dono) filtrato attraverso il processo anti-dono dello scambio, modellato sulla mascolazione. La mascolazione toglie valore alla pratica del dono e dà invece valore alla posizione uno-molti, alla sua incarnazione nelle gerarchie e alla competizione per il primo posto. Molti dei doni e gran parte del valore che la mascolazione dà alle proprie priorità scorrono in realtà attraverso di essa transitivamente da chi nutre, che dà prevalentemente agli uomini e al processo della mascolazione stesso. Le pratiche di cura normali, non distorte, danno direttamente valore ai bisogni, ai riceventi dei doni e ai mezzi per la soddisfazione di questi. Il linguaggio fornisce la pratica del dono verbale di grana sottile, basata sul valore della co-mu-nità, che media interazione e cooperazione in sintonia, creando il valore dato dai molti che lavorano insieme con uno sforzo comune e contribuendo alle soggettività fisiche e fisiologiche individualizzate dei co-muni-catori. Stiamo considerando il valore non economico come la norma nascosta, invece che come un "sottocaso" del valore economico. Basando la nostra idea di valore non economico sul valore linguistico, la nostra idea di linguaggio sulla pratica del dono e la nostra idea di valore linguistico sull'importanza dei doni del mondo per la comunità, possiamo avere una prospettiva diversa dalla quale vedere non soltanto il valore economico, ma anche quelli che sono generalmente chiamati valori "morali". Il patriarcato, separando tra loro i diversi tipi di va-lore e negando la pratica del dono (o al massimo considerandola una cosa curiosa e rara dovuta a una propensione irrazionale a nutrire), ha imposto i valori della mascolazione sulla società nell'insieme. Esso pratica la dominazione attraverso la categorizzazione: ripete cioè su ogni cosa in termini diversi la mascolazione, che è applicata ai bambini maschi attraverso la loro definizione di genere nel momento in cui sono categorizzati come separati e superiori. In queste circostanze, i valori "morali" sono un tentativo di regolare gli interessi mutuamente esclusivi lontano dal danno, di mitigare i loro effetti negativi e di reintrodurre la pratica del dono come un elemento puramente ausiliario in una realtà basata sul patriarcato e sullo scambio. Invece, è la pratica del dono e non la mascolazione il fondamento per creare una società in cui ognuno possa avere cura dell'altro senza danno. Altri valori culturali, come quelli estetici, storici, spirituali o etnici sono originariamente situati nell'ambito di un contesto creato dalle pratiche di cura e dal linguaggio, ma adesso vengono generalmente alterati dalla mascolazione e dallo scambio. Quando saremo infine in grado di smantellare il patriarcato sarà possibile considerare cosa sono i valori culturali al di là di questa alterazione. Molti di essi contengono già, comunque, la speranza di un mondo migliore; sono doni della fantasia che guariscono alcune delle sofferenze subite dall'uma-nità nel corso dei secoli. 1 Fa differenza se questa è solo una proiezione sulle cose, dal momento che funziona perché esse diano valore alle parole per noi? Nel patriarcato abbiamo creduto che le donne fossero passive nel cedere il passo agli uomini, ma in realtà stavano ancora dando loro valore per implicazione. Il particolare cedere il passo delle mele, delle montagne, di un uccello che canta su un albero o di una bambina che colpisce la palla sono abbastanza simili per dare va-lore alle parole-dono che prendono il loro posto, anche se sono molto diverse come parti del mondo. Le idee astratte (come la giustizia) o le creature della fantasia (come gli unicorni) oppongono una resistenza ancora minore nel lasciare che il loro posto venga preso. 2 Leggendo della prospettiva filosofica sul lavoro di pratiche di cura delle donne, ho capito finalmente in cosa concordo con la frase di Marx sul linguaggio come coscienza pratica che esiste per gli altri e, perciò, esiste in effetti anche per me. Il lavoro del prendersi cura è coscienza pratica, e il linguaggio uno dei suoi aspetti generali. Per la prospettiva delle pratiche di cura, cfr. Ruddick 1989. In un contesto più specificatamente economico, cfr. Folbre 1994. 3 Il valore d'uso è una categoria del mercato, definito in opposizione al "valore di scambio" e analogamente sottratto alla pratica del dono. I doni so-no beni con una fonte e una destinazione, fanno parte di una relazione umana. È dal punto di vista del paradigma dello scambio che identifichiamo qualcosa come un valore d'uso, con un potenziale generalizzato e neutrale per soddisfare il bisogno umano, "nominabile" con il denaro, oggettivato come proprietà. Il valore d'uso è il requisito indispensabile del valore di scambio, che rende al tempo stesso il prodotto estraneo al processo del dono, al di fuori della "grana" donante. Dal punto di vista del paradigma del dono, i valori d'uso dovrebbero essere parte di un processo più completo in cui partecipa la gente. Mentre è vero che dopo aver scambiato, la gente usa i prodotti per soddisfare i bisogni, la relazione con il produttore quale fonte originaria dei prodotti risulta generalmente spezzata. Per di più, nel capitalismo, i produttori non producono valori d'uso come doni, ma come oggetti che la gente pagherà per utilizzare. La gratitudine viene data al mercato, e al processo di scambio stesso. Che la logica del dono sia ancora forte lo dimostra il fenomeno dell'"etichetta", che identifica la fonte dei beni in una particolare società come se questi fossero doni, ricreando una relazione umana artificiale con il "donatore" in modo che i "riceventi" comprino di più. L'affare, i saldi e la svendita hanno una dinamica simile. 4 Nella preistoria le pratiche di spartizione del cibo erano diffuse tra i primi ominidi. Ma gli archeologi mascolati attribuiscono normalmente alla caccia un ruolo maggiore nello sviluppo dell'uomo. 5 Volosinov (1930) dice: "Ogni fase nello sviluppo di una società ha una propria sfera di elementi speciale e ristretta, che da sola ha accesso all'atten-zione di quella società e che grazie a quell'attenzione può essere dotata di un rilievo di valutazione. Solo gli elementi inerenti a quella sfera realizzeranno la formazione segnica e diverranno oggetti nella comunicazione semiotica". Ognuno di questi elementi "dev'essere associato ai requisiti indispensabili so-cio-economici vitali per l'esistenza di quel gruppo". Penso anche alle pitture nelle caverne preistoriche, che (oggi si ritiene) furono ottenute disegnando con la bocca – sputando il colore sui muri – come ancora avviene per alcuni pittori aborigeni nelle caverne dell'Australia: la pittura è prima espulsa con la bocca (attribuita) sul muro, poi rimirata. L'analogia, che mi sembra maggiore in questo caso rispetto alla pittura con le mani o col pennello, risiede nell'al-terazione fisiologica del respiro e della saliva necessaria a emettere il colore. Un'accelerazione del respiro o un aumento della saliva potrebbero servire da "ancore" fisiologiche per gli accenti o le attribuzioni di valore, che avvengono continuamente nella nostra esperienza in corso ma dei quali non siamo neanche consapevoli. L'attribuzione, l'apprezzamento (e la proiezione) del valore attraverso il linguaggio coinciderebbe quindi con l'enfasi data attraverso le alterazioni del respiro. Anche il respiro implica il ricevere (inspirare) e il dare (espirare). 6 Michel Foucault (1966) parla del valore, all'interno del paradigma dello scambio, come "attributivo", "apprezzativo" e "articolativo". 7 Vedi Karl Marx (1859) per una discussione sul carattere relazionale di produzione e consumo, sulla specificazione dei bisogni attraverso la produzione che li soddisfa così come sulla specificazione della produzione attraverso il tipo di bisogni che devono essere soddisfatti. 8 Credo che questa relazione con dei bisogni diversi sia alla base dei valori "puramente differenziali" che Saussure identificava come principio di organizzazione astratto della langue. Vengono usati tipi di cose diverse in processi del dono diversi, per soddisfare tipi di bisogni diversi, e queste cedono il passo a parole diverse che prendono il loro posto come doni comunicativi. I casi di omonimia e sinonimia non sono problematici finché l'esclusione mutua si mantiene sul piano fonetico e i bisogni soddisfatti rimangono nettamente diversi l'uno dall'altro. Il valore-come-posizione mutuamente esclusivo che si trova nella langue si ripete nella struttura delle istituzioni derivanti dalla mascolazione, come l'OBN (le reti di solidarietà maschili) o la proprietà privata. Le gerarchie hanno una struttura simile a quella di termini linguistici di classi superiori o subordinate, secondo la generalità e l'inclusività. Ad esempio, un termine di classe superiore come "pianta" è più generale delle subordinate in es-so incluse come "fiore", "albero", "vite", mentre "fiore" è di classe superiore più generale dei termini che include come "rosa", "margherita" o "mimosa". 9 La metafora postale: emittente (codificatore), pacchetto (messaggio) e ricevente (decodificatore) è la pratica del dono vista come "servizio postale". Il codice è un insieme comune di "marche" che un gruppo "ha" e un altro gruppo "non ha". Codificare e decodificare, inviare e ricevere un messaggio sono metafore dell'impacchettare e aprire un regalo. Un'altra situazione di economia del dono nella nostra società (oltre alla pratica materna) è in effetti l'invio e la ricezione di doni celebrativi in occasione di compleanni, Natale ecc. Cfr. Cheal (1988) sui doni celebrativi. 10 Credo che quelli che gli studiosi di semiotica chiamano "segni naturali" possano anche essere interpretati come doni, anche se i comportamenti attraverso i quali sono utili per gli animali possono essere meno complessi dei nostri. I fiori, attraverso il loro colore e profumo, dicono agli insetti: "qui c'è il nettare". Il colore e l'odore sono doni secondari, che portano al dono materiale del nettare. Il dono dipende dal ricevente per il suo esistere come dono: una nube nera è un dono (un segno naturale) per chiunque possa usarlo per tornare a casa prima che cominci a piovere; un albero che cade nel bosco è un dono per chiunque possa usarlo in quanto tale. Ho sentito di recente una canzone ambientalista sugli alberi che cadono nella foresta pluviale. 11 "The Journal of the International Association for Feminist Economics" (IAFFE) è stato fondato nel 1995 ed è pubblicato da Routledge.
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