Premessa
Questo saggio smaschera la funzione del credito in quanto mezzo per espropriare i beni comuni. Il dibattito sui beni comuni mira a spiegare le nuove forme di esproprio che si stanno verificando celate sotto gli slogan “riduzione della povertà e protezione dell’ambiente”. La trattazione di questo saggio sui beni comuni si avvale di una prospettiva marxista, globale e femminista sull’economia di sussistenza che rivela nuove aree di dono minacciate di esproprio, che sono il lavoro delle donne nelle zone rurali, la produzione di sussistenza delle popolazioni contadine e indigene e il patrimonio naturale del Terzo Mondo. In conclusione, il prestito ha legalizzato l’espropriazione del patrimonio naturale e sociale delle popolazioni che vivono nei paesi indebitati, estendendo la miseria e l’esclusione. Ma le donne, i contadini e le popolazioni indigene messe all’angolo si stanno ribellando e reclamano i loro beni comuni.
Introduzione
In generale, i beni comuni sono le condizioni di vita sociali (eredità culturale, case, scuole, ospedali, pensioni di anzianità) e naturali (terra, biodiversità, materiale genetico, oceani, fiumi, montagne) a cui hanno accesso tutti i membri della comunità. La nozione di bene comune è fondamentale per capire le differenze di genere, la dominazione e l’imperialismo, e lo sfruttamento dell’uomo e della natura. Il dibattito sui beni comuni è indispensabile per spiegare le nuove forme di controllo sociale e territoriale che stanno portando all’espropriazione intensiva di vite, sia umane che non umane, nelle periferie indebitate. La discussione sui beni comuni in questo saggio mette in campo una prospettiva marxista, globale e femminista sull’economia di sussistenza che rivela nuove aree di dono minacciate di esproprio, quali il lavoro delle donne nelle zone rurali, la produzione di sussistenza delle popolazioni contadine e indigene e il patrimonio naturale del Terzo Mondo. Mies (1986, 1996), Mies e Bennholt-Thomsen (1978, 1999), Shiva (1989, 1993, 1994, 1998) e Salleh (1994, 1997) affermano che le attiviste del movimento delle donne non hanno altra scelta se non quella di unirsi al movimento per l’esistenza indigena, poiché la situazione degli indigeni e delle donne è simile in quanto risultato delle condizioni in cui vivono – povertà – e per il lavoro fisico che fanno – proteggere la vita e farsi carico del lavoro più produttivo della società.
Per riflettere sui Commons (beni di tutti), uso il concetto “accumulazione per esproprio” coniato da David Harvey nel libro “La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo” (2006). Egli afferma che la teoria generale sull’accumulazione del capitale di Marx è stata costruita su premesse che escludono i processi accumulativi primari o le infrastrutture vitali dei Commons. Gli assunti di Marx relegano erroneamente l’accumulazione nel passato, nella tendenza al saccheggio, all’inganno e all’uso della violenza propri delle società “al di fuori” del sistema capitalista. Secondo Harvey, al contrario, l’accumulazione primaria di Marx permane in tutta la sua potenza anche all’interno dell’attuale capitalismo globale. Quindi, l’accumulazione per esproprio comprende la riduzione a bene e la privatizzazione della terra, nonché l’espulsione forzata delle popolazioni contadine e indigene, la conversione delle varie forme di diritto sulla proprietà (di territorio, di collettività, di stato ecc.) in diritti di proprietà privata, la soppressione dei diritti sui beni comuni, la riduzione a bene di consumo del lavoro femminile, la soppressione delle forme di produzione e di consumo indigene, la monetizzazione dello scambio e della tassazione, il commercio di schiavi e l’usura. In questo modo, si manifesta verso l’“altro” un circolo di violenza e di guerra. Così, accumulare tramite l’espropriazione significa svalutare l’“altro” per comprare abilità e lavoro locali a poco prezzo: avviene attraverso l’uso della crisi del debito e di quella ambientale.
Qui esamino l’esproprio dei beni comuni tramite l’uso del credito. E’ mio particolare interesse vedere come i mercati globali di credito costruiti socialmente (sistema finanziario) stiano sistematicamente soggiogando l’ambiente umano e non dell’America Latina indebitata. In questo saggio vengono posti tre interrogativi. Primo, come viene usato il credito per espropriare i beni comuni naturali; secondo, come viene usato il debito per espropriare i beni comuni sociali e, terzo, come è iniziata la rivendicazione dei beni comuni da parte degli espropriati.
Inizio con una breve trattazione sul credito, all’interno della quale pongo questi quesiti. Negli anni ‘70, il credito ha messo in moto una dinamica capitalista che ha portato a una situazione in cui i produttori vengono sistematicamente subordinati agli imperativi del mercato. La crisi del debito che è scoppiata in Messico nel 1982 ha due origini: il declino delle quote di profitto manifatturiero nelle economie a capitalismo avanzato (Brenner 2002), e l’elevato costo della guerra del Vietnam per gli Stati Uniti, che ha dato il via a un grosso deficit (gatt-Fly, 1985) creando una crisi fiscale che ha gravato sullo stato dello sviluppo. Più crescevano le crisi dell’industria manifatturiera e del Vietnam e più gli Stati Uniti stampavano dollari. Poiché il dollaro USA era legato all’oro, si è verificata un’inflazione globale che ha portato a quello che poi è stato chiamato l’“Euromercato”, quando le banche internazionali che acquistavano in dollari iniziarono ad aprire sportelli in Europa. Questi dollari vennero riciclati nei paesi del Terzo Mondo a tassi di interesse relativamente bassi, ma variabili. Nel momento in cui i paesi dell’America Latina avevano ottenuto i crediti, l’Euromercato operò sulla base del credito a medio e lungo termine con tassi di interesse che andavano dal 2 al 4 per cento. Dopo il 1978, questi crediti furono sostituiti da crediti a breve termine con tassi di interesse variabili che lasciavano ai beneficiari la maggior parte del rischio. Per il 1982, i prestiti a breve termine erano stati vincolati all’aumento dei ratei di interesse che raggiunsero negli Stati Uniti il 16,6 per cento (Roddick, 1988). Prima di allora, gli interessi degli U.S.A. avevano usufruito della stabilità del Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.) e delle Politiche di Equilibrio Strutturale (S.A.P. – Structural Adjustment Policies) della Banca Mondiale (B.M.) mirate alla riorganizzazione della produzione societaria interna e alla riproduzione di un mondo indebitato per favorire la penetrazione del capitale internazionale.
Usando la crisi del debito, alla fine degli anni ‘80, i tassi di riconversione del debito causarono la maggior parte degli investimenti stranieri diretti all’America Latina. Con il piano Brady per la ristrutturazione del debito stabilito nel 1989 e il Consenso di Washington del 1995, i finanziamenti alle banche dell’America Latina furono trasformati in bond che potevano facilmente essere negoziati sui mercati finanziari. Si sviluppò un attivo mercato di compravendita di questi bond che divenne presto una risorsa chiave per il capitale. La Entrerprise American Initiative (EAI) statunitense, sotto Georges Bush senior, proponeva di usare fondi statali come credito1 allo scopo di trasferire le aziende pubbliche dei paesi indebitati alle multinazionali private americane. Attraverso i tassi di debito, i paesi privatizzarono le loro infrastrutture pubbliche e misero le multinazionali straniere in condizione di poter fare il bello e il cattivo tempo all’interno della loro economia e della loro ecologia.
Per la fine degli anni ‘80, la crisi (sociale) dovuta all’indebitamento si stava commissionando alla crisi ambientale. Con la pubblicazione del Rapporto della Commissione Mondiale delle Nazioni Unite sullo Sviluppo e l’Ambiente del 1987, conosciuto come il “Nostro Futuro Comune” e spesso citato come Brundtland Report, si accelerò la consapevolezza sulla crisi ambientale. Nel 1992, al Summit della Terra, gli esperti occidentali delle agenzie per lo sviluppo e i manager per le risorse globali (GRMs) si incontrarono e appianarono le loro prospettive divergenti riguardo quello che è stato chiamato “sviluppo sostenibile”2. Il dibattito sullo sviluppo sostenibile evidenzia che le tensioni fra la povertà e l’ecologia saranno risolte nei paesi indebitati riconciliando gli interessi dell’economia globale con quelli ecologici (Asiedu-Akrofi, 1991; UNESCO, 1995) per mezzo della crescita economica. Date le premesse, la soluzione al debito e alla crisi dell’ambiente non poteva che espandere il sistema del mercato. Un meccanismo per espandere il sistema di mercato è usare i fondi stanziati per il debito per la natura*, a cui ci si può riferire come a investimenti di debito per la natura per rendere evidente il loro genere. Un investimento di debito per la natura è un meccanismo finanziario che ripaga i prestiti erogati da creditori come banche private o stati con risorse naturali. Gli investimenti del debito per la natura sono meccanismi fondamentali dello sviluppo sostenibile che impediscono l’entrata nel paese di nuovo denaro, poiché è il paese indebitato che paga con moneta locale le azioni del debito estero che è stato contratto in dollari. L’“obbligazione” del paese debitore è di destinare le risorse interne al finanziamento di progetti ecologici piuttosto che estinguere una parte del debito estero del paese. Gli investimenti del debito per la natura si basano su una valutazione negativa del debito nazionale, il che significa che il debito deve essere considerato da non pagare, in modo che i titoli di debito possano essere venduti a una frazione del loro valore nel mercato secondario. Sostenuti dal programma di aiuti all’ambiente globale (GEF - Global Environmental Facility) della Banca Mondiale e con l’assistenza dell’Aid, gli investimenti del debito per la natura insistono su misure di risanamento strutturale per stimolare la crescita economica.
Alla fine degli anni ‘90 ho scritto, nella foresta pluviale della Costa Rica, la mia tesi di laurea su uno dei primi scambi di debito per la natura tra il Canada e la Costa Rica. In questo frangente si verificarono due eventi importanti: l’indebitamento spingeva i poteri locali della Costa Rica a condividere gli interessi commerciali delle multinazionali sulle sue ricchezze naturali, in particolare sul suo materiale genetico, mentre emergeva allo stesso tempo una nuova ideologia di modernizzazione e protezione ambientale detta ambientalismo aziendale. Il discorso di “proteggere” la terra, l’aria e l’acqua tramite la proprietà privata al servizio del capitale, ha giocato un ruolo chiave nel piano di appropriazione neoliberista. In questa dissertazione, il debito per la natura è un “nuovo programma di gestione comune” che rappresenta l’aumento della mercificazione sotto forma di esproprio finalizzato a nuova accumulazione. Il saggio mostra che le crisi del debito e dell’ambiente sono diventate funzionali al perseguimento dell’espropriazione del lavoro di casa delle donne nelle zone rurali e della produzione di sussistenza delle popolazioni indigene e contadine, e alla recinzione dei beni comuni.
Proseguendo, per prima cosa cercherò di esporre la questione sia dei beni comuni globali che di quelli locali. Secondo, di smascherare l’esproprio della natura – in Costa Rica, e anche l’esproprio sociale – nelle regioni dell’America Latina, causati dal prestito. E terzo, esporrò la rivendicazione dei beni comuni da parte delle comunità boliviane.
Per concludere, con il prestito è stato reso legale l’aumento della trasformazione in merce e l’esproprio sociale e naturale ai danni delle popolazioni dei paesi indebitati. La lotta contro la mercificazione sta unendo la lotta delle donne rurali, dei contadini e degli indigeni.
Appropriazione: beni comuni globali al posto dei beni comuni locali
I beni comuni di cui si sta trattando sono lo spazio naturale, sociale e politico che fornisce la sussistenza, la sicurezza e l’indipendenza, pur non producendo quei beni di consumo tipici del profitto. Essi hanno subito un esproprio. L’esproprio consiste nella recinzione fisica della terra e nell’estinzione dei diritti d’uso territoriali e tradizionali dai quali dipendeva la sopravvivenza di molta gente. Le azioni di appropriazione del XVIII secolo hanno avuto luogo in seguito a leggi del parlamento (Wood, 2002). Il primo esproprio avvenne quando i grossi latifondisti cercarono di allontanare le comunità da quelle terre che potevano diventare redditizie per l’allevamento della pecora. Locke è convinto che la maggio parte del valore della terra non deriva dalla natura, ma dal lavoro e dal buon uso. Al contrario, Marx (1977) identifica le prime recinzioni come un processo di esproprio dei produttori diretti: una volta espropriati, furono immessi nel mercato. Secondi Polanyi (1967), il mercato non è un atto naturale; la società crea i mercati per l’accumulazione. Storicamente, l’economia di mercato accelera la recinzione della terra per mobilizzare e produrre proletariato per l’industria. Con l’espansione del mercato, il concetto dell’azione naturale volta alla sussistenza è stato sostituito dal profitto. Quindi le comunità sono ciò che ancora rimane delle economie del dono mentre il mercato è ormai ovunque il sistema dominante.
Il dibattito sui beni comuni ha iniziato a scaldarsi fin dal 1968, quando il biologo Garret Hardin mise in evidenza il fatto che qualsiasi regime comunitario sarebbe finito nel degrado qualora un solo fruitore fosse riuscito a ricavare dallo sfruttamento dei beni comuni più della perdita individuale che lui o lei avrebbe potuto sostenere nel disastro risultante. Si confida nell’espansione della proprietà privata, del libero mercato perché la liberalizzazione* dei beni comuni porterebbe tutti alla rovina. Secondo Goldman (1998: 21), il discorso di Hardin applicato ai beni comuni locali è funzionale oggi a quello sui beni comuni globali che propende verso un processo decisionale diretto e internazionale sulla biodiversità e sulle foreste amazzoniche, sull’ozono della terra, sulla profondità dei mari e così via (Goldman 1998: 21).
Dal Summit della Terra del 1992, stiamo assistendo a un esproprio contemporaneo, risultato di una politica che si appoggia enormemente su strumenti basati sull’economia e sul mercato per attuare la protezione dell’ambiente. Questo programma è portato avanti da professionisti dello sviluppo e da ambientalisti. Ad esempio, la Banca Mondiale, tramite il Global Environmental Facility (GEF), ha dato il via a un programma di finanziamento rivolto ai Manager delle Risorse Globali (GRMs- Global Resource Managers), gruppi che verranno chiamati in seguito organizzazioni corporative ambientali non governative (CENGOs – Corporate Environmental Non-Governmental Organizations)3 e che definiranno l’intero pianeta “insieme di beni comuni globali”. Nel disegno della Banca Mondiale, i beni comuni sono aree di espansione del capitale sociale e naturale. I beni comuni globali “sono l’insieme delle risorse di una nazione che include le infrastrutture edificate, le risorse naturali (minerali, energia, terre agricole, foreste), il capitale umano e sociale” (Hamilton, 2001). Smith e Simmard (2001) dell’Istituto di Statistica canadese hanno ampliato il concetto di capitale naturale a quello di beni comuni globali per includervi i giacimenti di risorse naturali, le materie a basso costo o a costo zero da utilizzare nella produzione di beni manifatturieri, la terra - essenziale per dotare di uno spazio l’attività economica e i sistemi ambientali o ecosistemi necessari per i servizi che alimentano direttamente o indirettamente l’economia, come la depurazione dell’aria e dell’acqua, la produzione della biodiversità, la stabilità del clima, la protezione dalle radiazioni solari e i flussi costanti di risorse naturali rinnovabili. Nel complesso, la retorica universalista dei beni comuni globali afferma che si sta agendo nell’interesse generale del “genere umano”. Secondo il GIS, Geographic Information Systems, i beni comuni globali includono anche i beni comuni locali mirando a politiche interventiste. Ne risulta che i beni comuni (materiale genetico, terra, acqua, foresta, montagne, ecc.) stanno finendo nelle mani di attori globali e gli interessi locali non contano più. Come effetto, la struttura dei beni comuni globali ha ridato linfa alla colonizzazione e all’espropriazione soprattutto nei paesi indebitati che ancora possiedono la foresta pluviale.
Esempio di questa disputa è il dibattito segreto sull’Amazzonia. Il Centro Felix Varela in Germania (Santos, 2004) cita una giovane brasiliana, residente negli Stati Uniti, che denuncia come un libro di geografia, usato per la classe sesta, mostri l’amputazione dell’Amazzonia brasiliana e di El Pantanal dalla carta del Brasile. Il testo in questione è “Introduzione alla geografia” scritto da David Norman. A pagina 76 si legge che l’Amazzonia è la prima riserva internazionale, la più importante riserva forestale, sotto la responsabilità degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite fin dal 1980. La ragione, secondo Norman, è che l’Amazzonia è una delle aree più povere del mondo ed è circondata da paesi irresponsabili, barbari e autoritari. Norman afferma anche che l’Amazzonia ingloba otto differenti stati alquanto bizzarri in cui dominano violenza, traffico di droga, ignoranza, mancanza di intelligenza e primitivismo. In un altro paragrafo si fa presente che l’Amazzonia ha una grande biodiversità, con varietà di specie animali e vegetali. Simili valori in mano a popolazioni e stati primitivi condannerebbero il mondo all’estinzione e alla distruzione totali nel giro di pochi anni. Poiché il valore dell’Amazzonia è incalcolabile, il pianeta deve assicurarsi che gli Stati Uniti non permettano a questi latini di sfruttare e distruggere un bene dell’umanità (Calloni, 2004; Santos, 2004).
Il 9 gennaio 2004, il Ministro dell’Educazione brasiliano, Cristovino Buarque, ha fornito una risposta. Durante un dibattito svoltosi in un’università americana, un giovane ha chiesto al Ministro cosa pensava della possibile internazionalizzazione dell’Amazzonia, sostenendo che l’Amazzonia fa parte dei territori globali. Lo studente pose la domanda sull’internazionalizzazione condizionando la risposta da un punto di vista umanista e non brasiliano. Riporto di seguito la risposta di Cristovino Barque, data la sua importanza:
In effetti, come brasiliano mi esprimerei semplicemente contro l’internazionalizzazione dell’Amazzonia. Nonostante il fatto che i nostri governi non si prendano abbastanza cura di questo patrimonio, esso ci appartiene. Come umanista, conoscendo il rischio del degrado ambientale di cui soffre l’Amazzonia, posso concepirne l’internazionalizzazione, così come si dovrebbe rendere internazionale tutto ciò che è importante per l’umanità. Se l’Amazzonia, secondo l’etica umana, deve essere internazionalizzata, allora dobbiamo farlo anche con le riserve mondiali del petrolio. Il petrolio è importante quanto l’Amazzonia per il benessere dell’umanità. Ciò nonostante i proprietari delle riserve di petrolio pensano di avere il diritto di aumentarne o diminuirne i prezzi. Stesso discorso per il capitale finanziario dei paesi ricchi: dovrebbe essere internazionalizzato. Se l’Amazzonia è una riserva per l’intera umanità, non può essere messa a fuoco per la libera volontà dei suoi proprietari, o per le necessità di un solo paese. Dare fuoco all’Amazzonia è deleterio così come è deleteria la disoccupazione provocata dalle decisioni arbitrarie degli speculatori globali. Non possiamo permettere che il sistema finanziario mandi in fumo interi paesi con le sue speculazioni... Mentre stiamo discutendo, si sta svolgendo il Millennium Forum delle Nazioni Unite, ma molti presidenti hanno difficoltà a parteciparvi per le restrizioni poste alle frontiere degli Stati Uniti. Per questo penso che New York, in quanto luogo fondamentale per le Nazioni Unite, andrebbe internazionalizzata. Perfino Manhattan dovrebbe appartenere all’umanità. Anche Parigi, Venezia, Roma, Londra, Rio de Janeiro, Brasilia, Recife... Ogni città del mondo, con le sue bellezze particolari e la sua storia, dovrebbe appartenere all’umanità. Se gli Stati Uniti vogliono internazionalizzare l’Amazzonia, visto il rischio che corre a essere lasciata nelle mani dei brasiliani, allora dobbiamo internazionalizzare anche gli arsenali nucleari americani, perché hanno provocato una distruzione di un milione di volte più grave degli incendi, comunque deprecabili, appiccati alla foresta amazzonica. Nei dibattiti contemporanei, i candidati alla presidenza americana difendono l’idea dell’internazionalizzazione delle riserve forestali del mondo usando il debito per la natura. Dobbiamo iniziare a utilizzare il debito per garantire che ogni bambino nel mondo possa mangiare e andare a scuola. Internazionalizziamo i bambini, trattiamoli come un patrimonio mondiale che ha bisogno di cure, indipendentemente da dove sono nati. Questo è più importante dell’attenzione verso l’Amazzonia. Quando i governanti tratteranno i bambini poveri del mondo come patrimonio dell’umanità, allora non permetteranno che lavorino invece di studiare, che muoiano invece di vivere. Come umanista, io accetto di difendere l’internazionalizzazione del mondo. Ma fino a quando il mondo mi tratterà come un brasiliano, lotterò perché l’Amazzonia sia nostra... SOLO NOSTRA! (Comunicazione personale, 10 gennaio 2003).
La locuzione beni comuni globali, focalizzandosi in maniera ristretta sulla valenza fisica della foresta, trascura la rete di relazioni e processi sociali che legano la foresta pluviale alla gente che la abita. Inoltre il disegno è quello di suscitare razzismo e preparare l’opinione pubblica delle popolazioni affinché supporti l’esproprio del territorio amazzone (Santos, 2004).
Vedremo in seguito come il prestito abbia determinato l’esproprio del focolare domestico basato sulle donne contadine, dei contadini e delle popolazioni indigene, e dei beni comuni naturali dell’America Latina che costituivano i loro mezzi materiali di sussistenza. Per discutere questo argomento, userò le riflessioni sui beni comuni fornite da Maria Mies (1986), che abbandona il parametro capitale/salario come unica istanza dello sfruttamento capitalista basandosi sulla teoria dello sfruttamento di Rosa Luxemburg. Secondo Luxemburg, c’erano due aspetti correlati nell’accumulazione: un aspetto riguarda il plusvalore come processo puramente economico tra il capitalismo e il lavoratore salariato; l’altro concerne la relazione tra i modi di produzione capitalista e non. Mies deduce che le colonie, adesso chiamate beni comuni, rimangono la precondizione di base della crescita economica o dell’accumulazione capitalista. Queste colonie sono il lavoro che le donne svolgono nelle case, le economie di sussistenza delle popolazioni indigene e contadine, la natura. Afferma che la strategia di separare l’economia in lavoro salariato “visibile” e lavoro non salariato “invisibile” consente l’esclusione di quest’ultimo dall’economia reale. Mies e Bennholt-Thomsen (1999) sostengono che le teorie più accreditate sul funzionamento dell’economia capitalista, quella marxista inclusa, prendevano in considerazione unicamente il rapporto capitale e lavoro salariato, il lavoro “visibile”, la punta dell’icerberg: un ambito regolato da leggi e sfruttato tramite i salari. La maggior parte della proverbiale parte nascosta dell’iceberg è costituita da cose come la riproduzione della vita, la sua cura e nutrimento, la gestione dell’ambito domestico, la produzione di sussistenza fornita dal lavoro dei popoli colonizzati, i loro territori e i loro beni naturali. Il lavoro che le donne svolgono in casa non è pagato e spesso nemmeno riconosciuto come lavoro; la produzione di sussistenza delle popolazioni indigene e contadine è sottopagata, discriminata e sfruttata, mentre la natura viene distrutta. Queste aree colonizzate sono governate con la violenza (Mies, 1999), come stupri, violenza domestica, genocidio e ecocidio, imperialismo. Mies e Bennholt-Thomsen (1996; 1999) sostengono che le donne e le colonie sono doppiamente sfruttate perché il loro sfruttamento non si basa sull’appropriazione capitalista del plusvalore, ma di quello che è necessario per produrre la sussistenza e, quindi, della loro sopravvivenza. La maggior parte delle donne, dei contadini e dei popoli indigeni del Terzo Mondo ricava reddito da fonti diverse, una delle quali è l’attività di “sussistenza”. Perciò, secondo Mies e Bennholt-Thomsen (1996-1999) e Salleh (1999), entrambi sono produttori diretti impegnati nella produzione del cibo e nel sostentamento della vita e sono sfruttati dal capitale, non attraverso il salario ma attraverso quello che producono, che viene loro sottratto gratuitamente o dietro un compenso bassissimo. Sono le economie del dono e i beni comuni che danno continuità all’accumulazione capitalista.
Esproprio dei beni comuni naturali
Fin dal Summit della Terra, il sistema dei prezzi è stato applicato in maniera più estesa. Utilizzando il programma neoliberista, tutte le strutture non appartenenti al mercato che ponevano dei limiti all’accumulazione hanno iniziato a essere eliminate per tramutare in beni di consumo ogni parte della natura. All’indebitata Costa Rica fu offerta l’espansione del “capitale naturale e umano” attraverso l’economia di mercato come il principio più altamente organizzato per trattare la crisi sociale (debito) e ambientale (naturale). Fu stabilita una collaborazione tra le multinazionali e gli stati-nazione per attuare l’espropriazione, cioè sfrattare i produttori diretti dalla terra. Questo strategia ha determinato un ruolo diverso delle Ong (CENGO) e degli stati nazionali. Da una parte, i funzionari della CENGO incaricati di effettuare ricerche genetiche sulle specie erano nel contempo diventati manager del FMI, della Banca Mondiale e sviluppavano i progetti di integrazione dei governi locali e delle comunità all’interno dell’economia globale. Dall’altra parte, venivano sollecitati gli “stati nazionali” a esercitare interventi più complessi negli affari delle comunità locali. Per adattare le loro aspirazioni e le loro attività economiche al sistema mondiale, gli stati diventano ora direttamente responsabili dell’oppressione e della destituzione dei propri cittadini. Sia la Cengo che gli “stati nazionali” hanno creato le condizioni per l’espansionismo materiale e un modo tecnicamente più incisivo di espropriare da un punto di vista ecologico i paesi indebitati.
Così, lo sviluppo sostenibile del movimento per i beni comuni globali ha dato il via alla gestione statale delle aree che devono essere preservate per l’estrazione di materiale genetico a scopo di ricerca, e alla predazione dei saperi locali per privatizzarli; le comunità hanno perso i loro beni comuni e sono divenute meno capaci di adattare le loro economie locali alle condizioni e ai bisogni locali.
Un esempio di pianificazione dei beni comuni globali e collaborazione si può trovare negli scambi debito per natura tra la Costa Rica e il Canada. Il debito per natura Canada-Costa Rica conobbe due stadi.
Nel 1991, un primo accordo del debito per natura tra Canada e Costa Rica organizzò il Progetto Arenal, sotto la gestione del WWF (World Wildlife Fund), dell’Agenzia di Sviluppo Internazionale del Canada (CIDA – Canadian International Development Agency) e del Ministero per l’Ambiente e l’Energia (MINAE – Ministry of Environment and Energy). Elaborarono un primo step del piano di gestione, El Plan General de Uso de la Tierra (di seguito nominato Land Plan). Il Land Plan regolava l’accesso e l’uso della terra nell’area protetta di Arenal-Tilaran (ACA), che comprendeva 250.651,5 ettari di terra; il piano raccomandava la protezione di 116.690,2 ettari di cui 76.707 (il 37,54 per cento dell’intera ACA) furono selezionati per un programma di ricerca e dichiarati “area nucleo” (area nuclei). Le aree di ricerca selezionate funzionavano sulle basi di accordi presi tra le istituzioni (Tremblay e Malenfant, 1996). La sezione di biologia del Land Plan identificò 4.283 specie vegetali e animali nell’area nucleo che rappresentava il 36 per cento delle ricchezze naturali della Costa Rica (ACA, 1993).
Il materiale genetico, bene comune naturale, fu privatizzato e utilizzato come nuova frontiera dell’accumulazione capitalista. Nel 1994, la INBio (Istituto Nacional de Biodiversidad), una Ong della Costa Rica, siglò un accordo con il Ministero per l’Ambiente e l’Energia (MINAE) per raccogliere, all’interno dell’area protetta, campioni che interessavano alle industrie. Furono cercati nuovi prodotti farmaceutici e agricoli su piante, insetti e altri elementi biologici in tre stazioni biologiche dell’area protetta di Arenal (ACA). L’ACA-MINAE, in collaborazione con la INBio, è attualmente coinvolta in due progetti di ricerca: 1) Risorse di biodiversità del progetto di sviluppo dell’ACA, finanziato congiuntamente dalla Banca Mondiale e dalla INBio; e 2) conoscenza dello sviluppo e uso sostenibile delle biodiversità della Costa Rica, ecomappa, finanziato dall’Olanda (Mora, 1998).
Nel 1996, il WWF Canada, ONG canadese, in collaborazione con l’Asociation Conservacionista Monteverde (ACM) ha raccolto materiale ed eseguito ricerche sulla flora e sulla fauna (PROACA, 1996). I partner esploreranno 10 aeree del territorio dell’ACA alla ricerca di informazioni biologiche.
Poiché i centri di ricerca sono organizzati nelle cosiddette aree-nucleo, queste aree sono off limits per le comunità rurali a meno che i loro membri non siano inseriti nel programma in qualità di tassonomi*4. Il Land Plan (ACA 1993) ha colpito le risorse di 108 comunità, che non sono state né informate né incluse nel processo decisionale che ha modificato la loro vita e il loro sostentamento. L’approccio non trasparente del Land Plan ha cancellato il diritto delle comunità all’uso della biomassa del territorio nelle aree nucleo, e posto sotto minaccia la sussistenza dei locali. Le riserve recintate di materiale genetico e le popolazioni della foresta sono vessate dagli interessi commerciali.
La chiusura dell’accesso alla terra ha trasformato i membri delle comunità in intrusi criminali. Nell’ACA, le aree dichiarate di recente territorio privato sono controllate da sette guardie appartenenti a un’unità di polizia di controllo. Quando l’unità poliziesca di controllo trova dei membri della comunità che infrangono i regolamenti sanciti nel Land Plan (come non pagare le tasse o introdursi nelle aree destinate alla ricerca), le guardie confiscano tutto ciò che è stato preso dalla terra (es. pesce o cacciagione) e qualsiasi strumento usato per farlo, dopodiché segnalano il reato all’Ufficio del Procuratore della Repubblica.
La biodiversità è una categoria relazionale inserita nell’ecologia e nella cultura e le comunità locali hanno lavorato al mantenimento della natura per secoli. Ciò nonostante, la manipolazione degli ecosistemi, che mira a ottimizzare lo sfruttamento della singola componente genetica, della CENGO o delle grandi multinazionali dell’ambiente, ha minato l’integrità della natura e i diritti delle comunità locali per sfruttare l’ambiente saccheggiando i mezzi di sussistenza dei membri delle comunità indigene.
Nella biodiversità, l’unico processo che porta valore aggiunto è quello che si manifesta quando la potenza e il potenziale della natura funzionano. Solo quando la natura viene modificata in laboratorio conta la sua produttività o è di qualche valore all’interno del paradigma dello sviluppo sostenibile. La ricerca biologica della CENGO inizia nelle aree protette sui campioni raccolti dai paratassonomi: le associazioni si appropriano della conoscenza locale su alcune proprietà delle piante e degli animali indigeni per dare il via alla maggior parte del lavoro di ricerca, assoldando le figlie e i figli delle comunità rurali come paratassonomi che iniziano la raccolta. E’ importante sottolineare che il paratassonomo è locale perché ci sono molti fattori avversi, come camminare di notte sotto violenti acquazzoni per visitare le serre, con il rischio aggiunto di essere morsi da un serpente o colpiti dai rami che cadono. Il paratassonomo ha una conoscenza intima dell’ecosistema proprio perché è un agreste. Nel processo messo in atto, lei o lui acquisiscono informazioni sull’area protetta e diventano informatori.
Nel processo della biodiversità, la collaborazione delle ONG con il mondo degli affari (farmaceutico, industria del profumo) ottengono di fatto il monopolio sulla natura, sui saperi e sul profitto. In questo sistema, il lavoro dei contadini e delle popolazioni indigene non ha valore economico, mentre il “lavoro scientifico” è percepito come valore aggiunto.
La CENGO ha abbassato il costo delle competenze della comunità locale per appropriarsene attraverso i paratassonomi. Hanno iniziato la raccolta con l’aiuto del sapere locale, con i paratassonomi, e l’hanno passata alle comunità degli affari nazionali e internazionali. Le piante medicinali, per esempio, venivano usate per salvaguardare la salute di tutti i membri della comunità e facevano parte del sapere comune di tutte le donne contadine. Durante i secoli, l’interazione delle donne del posto ha creato una ricca ed elaborata cultura – una cultura delle piante medicinali il cui valore biologico è intrinsecamente legato ai valori sociali, etici e culturali. Esiste una struttura socio-culturale che ne regola l’uso. Le piante medicinali venivano prodotte secondo la tradizione per il consumo famigliare, avevano cioè un valore d’uso e non di scambio. Le donne erano le tenutarie delle piante medicinali e del sapere e, come tali, cuocevano insieme combinazioni di piante ad uso curativo. La maggior parte di queste donne coltivava intorno alla casa le piante medicinali che facevano parte del sistema agricolo interno: dalla coltivazione secolare delle piante medicinali ha tratto la conoscenza dei semi e del terreno e l’abilità nel prepararle. Tuttavia, il significato sociale e culturale delle piante medicinali è rimasto sconosciuto, perché 1) era legato al lavoro delle donne –considerato da sempre come non lavoro e non competenza nonostante il fatto che il lavoro delle donne sia stato fondamentale per la conservazione e l’utilizzo della biodiversità; e 2) era considerato gratuito perché associato alla natura selvaggia e ai paesi poveri.
La CENGO ha svalutato le comunità locali non riconoscendo la loro autorità ecologica. Il “sapere” scientifico minaccia il sapere consuetudinario partendo dal fatto che il sapere che si acquisisce vivendo è legato ai sensi e all’esperienza e quindi non autorevole. Per questo la conoscenza sottratta alle comunità locali e agli indigeni non viene pagata. La biodiversità comunque non è solo un prodotto creato dalla natura; nel corso del tempo, l’attività delle popolazioni indigene e dei contadini ha fatto crescere e migliorato le piante e le medicine tradizionali. Nel Terzo Mondo, gli agricoltori locali nei millenni hanno effettuato cambiamenti nella genetica e continuano a produrre materiale genetico di grande valore. I geni sono selezionati, migliorati e sviluppati dagli agricoltori e ciò riflette la loro creatività, inventiva e genialità. Ma nonostante siano i fornitori e i selezionatori della biotecnologia, il loro lavoro non è riconosciuto (Cabrera, 1993).
La CENGO ha anche il monopolio del profitto. La INBio ha fatto accordi con aziende come la Bristol Myers Squibb Company, la Recombinant Biocatalysts, la Analyticom ag., la INDENA (azienda fitofarmaceutica di Milano, Italia), la Givaudan-Roure Fragrances of New Jersey (per identificare e raccogliere profumi interessanti dagli organismi della foresta), il British Technology Group, il Strathclyde Institute for Drug Research (Scotland) e molte altre (Mateo, 1996; Gudynas, 1998). Nel primo accordo (1991), la Merck and Co. pagò alla INBio un milione di dollari americani per intraprendere una collaborazione non in esclusiva della durata di due anni.
Secondo Goldman (1998), la CENGO ha sostituito degli “esperti” in beni locali ai contadini scalzi; ora, con il nuovo trattato, sono loro le eminenze che spiegano il degrado e la sostenibilità ecologica con il loro sapere, le loro regole e le loro scienze (p. 35).
[…] fino a quando i beni comuni saranno considerati come se esistessero solo all’interno di uno specifico paradigma del sapere, chiamato sviluppo, con le sue strutture nascoste di dominio, questa associazione (CENGO) continuerà a servire lo sviluppo istituzionale, la cui ragione d’essere è ristrutturare le potenzialità Terzo Mondo e i suoi legami socio-naturali per favorire l’espansione del capitale internazionale (p. 47).
La CENGO è più interessata alla domanda espansionista dell’industria occidentale che alla salvezza dell’ecologia. Si assicureranno che l’industria ottenga ciò che le serve dato che il progetto espansionista ha bisogno di una quantità maggiore di materia prima ottenuta dalla terra, dai fiumi, dalle foreste, dalle falde acquifere e dal lavoro a basso costo.
L’esproprio dei beni comuni
Prima della crisi ambientale e ancora prima della crisi del debito (1982), ai contadini e agli indigeni era permesso vivere come “ecosistemi di popolazioni ” (Guha e Martinez-Alier, 1993), il che significa che la maggioranza della popolazione rurale viveva della biodiversità non monetizzata, in particolar modo nella foresta pluviale amazzonica. Con l’aumento del tasso di interesse del 1982, la crisi messicana segnò l’inizio di una crisi del debito generalizzata e il prestito divenne il miglior strumento dell’espropriazione. Come riuscirono gli stati neoliberisti a espropriare i beni comuni delle società? Sono stati messi in atto diversi meccanismi finalizzati all’appropriazione indebita. Sono:
- la commistione dei poteri in cui i governi (stati) dell’America Latina, in accordo con il Ministero del Tesoro degli Stati Uniti e il FMI, hanno acconsentito a socializzare il debito verso i privati del mondo degli affari locale e internazionale, mentre il settore pubblico continuava ad accumulare debiti;
- per pagare questi debiti, lo stato ha privatizzato le aziende pubbliche per generare profitto finanziario indirizzato alle multinazionali private e alle organizzazioni internazionali nonché ai politici locali corrotti.
- per intimidire e fare accettare riduzioni di salario, tagli agli investimenti sociali e ai servizi a favore del surplus finanziario, i poteri usano l’esercito (uccisioni, sparizioni).
Presi in mezzo fra il FMI e la BM, i governi si stanno impantanando in forme di politica che svalutano l’intera regione per poter accumulare tramite l’espropriazione, in modo da riuscire ad acquistare proprietà e forza lavoro locali a prezzi molto bassi.
L’abbassamento del costo del lavoro e del prezzo dei terreni è stato il risultato della riorganizzazione delle economie dell’America Latina che hanno come priorità quella di mantenere il prestito. Durante gli anni ‘90, la politica di privatizzazione della BM ha avuto sempre più priorità su altri principi e diritti di proprietà con lo scopo di promuovere la “crescita” economica. Negli anni ‘90, gli investimenti diretti delle multinazionali americane ottennero un utile del 14 per cento,5 la percentuale di profitto più alta nel mondo.
La crescita proclamata dalla Banca Mondiale fece salire le transazioni monetarie mentre distrusse i modi di vita e causò l’esproprio di milioni di persone. L’obbligo alla crescita dell’esportazione fece passare le popolazioni contadine e indigene da:
- un’agricoltura di sussistenza a un’agricoltura diretta all’esportazione, soprattutto orientata a produrre ed esportare carne, prodotti ittici (p.e. gamberetti), fiori, piante medicinali e ortaggi. Tutto ciò ha tolto terreni e acqua alla produzione del cibo tipico usato per il fabbisogno interno.
- dal controllo dei piccoli coltivatori sulle risorse a quello delle multinazionali dell’agrobusiness. Ciò ha distrutto la base delle risorse naturali e i mezzi di sostentamento delle popolazioni, e da:
- un’agricoltura che dava occupazione a milioni di persone a un’agricoltura nelle mani di un pugno di multinazionali dell’agrobusiness; si è venuto così a creare un esercito di disoccupati.
In un ambiente in cui la terra viene espropriata, la divisione sessuale del lavoro nell’ambito famigliare fornisce un insieme di prestazioni a poco prezzo. Il modello delle relazioni di genere, in questo contesto, è costituito dall’articolarsi del capitalismo all’interno del patriarcato, in cui le donne sono socialmente costruite come forza lavoro a basso costo. Nei casi in cui i contadini poveri riescono a tenersi la terra, le loro giovani figlie sono intrappolate in microimprese.6 Le donne rurali diventano la forza lavoro ottimale nell’agricoltura biologica per tante ragioni: sono dislocate in zone strategiche e la svalutazione delle donne fornisce lavoro a basso costo.
Quando le famiglie contadine vengono sfrattate, le donne entrano nella forza lavoro salariata per assicurare assistenza e supporto emotivo ai membri della famiglia espropriati. Alla conferenza dell’AWID7, tenutasi in Guadalajara nel 2002, le conseguenze del cambio di produzione dall’agricoltura di sussistenza all’agricoltura per l’esportazione sono considerate responsabili della conversione delle figlie dei contadini in lavoratrici delle maquiladoras*. In Messico, Guatemala, Honduras, El Salvador, Costa Rica e Panama è stata legalizzata una nuova struttura sociale che consente di usufruire per la prima volta del lavoro delle donne, a partire dalla crisi del debito e dal nuovo Trattato Americano per il Libero Commercio (North America Free Trade Agreement). Alle multinazionali (TNCs) è permesso inviare prodotti per l’assemblaggio alle maquiladoras, dove i costi sono più bassi, e poi spedirli negli Stati Uniti, sfruttando in questo modo il paese e la gente. Alla AWID (2002), le donne hanno denunciato che i loro bassi salari nelle maquiladoras8 e l’esenzione dalle tasse d’esportazione per le zone manifatturiere sono da considerare un altro dei vantaggi che le élite dell’America Latina offrono all’economia globale. L’85 per cento dei lavoratori sono giovani donne che provengono dalle zone rurali. Integrarsi nel sistema globale comporta il disfacimento della famiglia contadina e obbliga le donne a spostarsi, mentre il potere della loro forza lavoro è minacciato dalla violenza fisica. Le ragazze delle aree rurali diventano adulte in fretta per riuscire a ottenere un lavoro nella maquiladora. Poiché provengono da aree rurali, affittano piccoli appartamenti in gruppo, vicino alle fabbriche, per dormire e per mangiare. Solitamente questi posti non hanno né acqua corrente né elettricità. La camera di solito è solo per quattro persone. Le condizioni di vita non si differenziano molte da quelle di lavoro, in fabbrica. Nella maquiladora, al momento stesso dell’assunzione inizia un umiliante sfruttamento sessuale. A chi chiede lavoro vengono fatte domande su quali tipi di anticoncezionale usa, sia che abbia una vita sessuale attiva o meno: inoltre i datori di lavoro si assicurano tramite test di gravidanza che le lavoratrici non siano incinta. Le donne lavorano in media 14 ore al giorno, in condizioni di schiavitù. Le lavoratrici vengono obbligate dai datori di lavoro ad assumere regolarmente anfetamine per reggere lunghi turni di lavoro con un salario medio di $ 100,00 mensili. Non vengono pagati straordinari. Nelle fabbriche non circola l’aria e non c’è tempo per andare in bagno. Simili condizioni lavorative stanno creando alle donne innumerevoli malattie che non sono contemplate nella legislazione di nessuno di questi paesi. Intere generazioni di donne si stanno ammalando a causa dei movimenti ripetitivi del lavoro. Operazioni che richiedono 10 secondi di tempo devono essere svolte in 5. Ma le donne più colpite sono quelle che producono i chips dei computer per l’industria elettronica. La salute di queste donne è sottoposta a rischi chimici. In media, dopo dieci anni di lavoro, diventano cieche. Quando le donne ritornano alle loro case nell’ambiente rurale come madri single e più povere di quando erano partite, di solito hanno problemi di salute. Inoltre, le donne lavoratrici sono circondate da guardie armate che controllano la zona franca e le donne avvocato sono considerate dai governi come apportatrici di interferenze nelle questioni produttive.
Per espropriare i beni comuni sociali, le politiche neoliberiste di stato mettono in atto violenze organizzate da cui nessuno può essere al riparo. Questi governi perseguitano le comunità contadine e indigene, a volte con elicotteri da combattimento, truppe paramilitari, aerei da bombardamento, carri armati, soldati, polizia, altre per mezzo di stridenti dichiarazioni, eloquenti silenzi, silenzi impotenti. Dagli anni ‘70 agli anni ‘90, se le comunità si organizzavano per difendersi dagli attacchi del programma neoliberista, veniva chiamata “sovversione”. In questi anni del 2000, nonostante il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite dei diritti umani dei Popoli, quando le comunità difendono i loro diritti o non vogliono sottomettersi all’espropriazione, si istituiscono organizzazioni paramilitari9, bande di narcotrafficanti (Sandovar e Salazar 2002) e squadre dell’esercito regolare che si alleano con i ricchi proprietari terrieri. In Colombia, membri importanti della società sono stati coinvolti in azioni controrivoluzionarie; in Messico civili armati hanno attaccato i municipi zapatisti e le donne delle zone rurali; in Guatemala ci sono stati violenti omicidi e in Bolivia la repressione avviene attraverso il genocidio. Durante la conferenza dell’AWID (2002), le donne indigene del Chiapas e dell’Oaxaca hanno illustrato come le donne non possano lavorare e siano obbligate a restare chiuse in casa o a emigrare per non essere violentate dai soldati che sono autorizzati a usare lo stupro come arma; hanno anche descritto che il 15 per cento delle donne nelle zone agricole soffre di depressione dovuta alla guerra a bassa intensità che viene fatta contro donne, uomini e bambini. Le donne messicane hanno denunciato l’assassinio di massa delle donne a Ciudad Juarez, al confine tra il Messico e gli Stati Uniti (AWID 2002). Oltre 800 donne che lavoravano nelle maquiladoras sono state rapite, violentate e uccise a quanto pare impunemente. Queste donne provenivano dalle aree rurali, senza parenti, guadagnavano salari bassissimi e subivano già un’incalzante violenza sessuale sul posto di lavoro. Un documento video, Senorita Extraviada diretto da Lourdes Portillo, mostra nei dettagli la sparizione di circa duecento donne.
Di pari passo con la violenza alle donne cresceva anche la violenza contro i loro bambini. Milioni di bambini hanno iniziato a vivere per strada (“Dichiarazione di Madrid”, 1994). I bambini di strada sono alla mercé della polizia pesantemente implicata in sparizioni, torture e omicidi di sospetti “sovversivi”. Questi bambini sono figli di donne impoverite, spesso di donne sole o abbandonate. I ragazzi che vivono sulla strada, di solito muoiono sulla strada, mentre le ragazze vivono e muoiono di violenza, vendendo la sola cosa che hanno: il loro corpo (Scheper e Hoffman, 1994). Inoltre, secondo l’International Labour Organization (ILO), nel 1996 c’erano 17 milioni e mezzo di bambini tra i 5 e i 14 anni che lavoravano per la maggior parte nel settore informale urbano o nell’agricoltura, soprattutto nelle fattorie contadine.
“Nel settore informale, i bambini più visibili sono i lavavetri, ma quelli a rischio più alto sono quelli che lavorano in casa, l’infinita moltitudine, soprattutto bambine, portate via dalla scuola e chiuse dentro le pareti domestiche delle famiglie dell’America Latina. Molti milioni di ragazzine lavorano in casa, accudendo i fratelli più piccoli e occupandosi della casa, così la madre può andare al lavoro.” (Green, 1999: 22)
Riassumendo, prima degli anni ‘70 la maggioranza della popolazione dell’America Latina era ancora contadina e non inserita nel mercato, ma dotata di mezzi di sussistenza, infrastrutture, terra dove cacciare, acqua dove pescare, un sistema educativo e sanitario locale, e un’attiva politica per la casa. Ma dopo gli anni ‘80, ai poveri non salariati che vivevano di un’economia di sussistenza si è aggiunto un flusso di popolazione urbana vittima della privatizzazione e della crescente disoccupazione, della svalutazione della moneta corrente e dell’inflazione, della diminuzione dei salari e della caduta del potere d’acquisto, della riduzione del budget per la spesa educativa e sanitaria e per le politiche abitative, dell’erosione delle pensioni e del livellamento sociale, della liberalizzazione del commercio, dell’abolizione del sussidio di stato, della mancata regolamentazione del prezzo dei cereali, dell’eliminazione della legge sul salario minimo, delle ulteriori riduzioni di stipendi e salari, della liberalizzazione dei prezzi e conseguente polarizzazione dei guadagni. La perdita del controllo sui mezzi di sussistenza e la monetizzazione della capacità produttiva hanno portato all’esproprio di massa (Deabt Treaty10, 1992; The Madrid Declaration, 1994; UNESCO, 1995, 1999). Nel 1990, nei paesi latini americani vivevano con 1,08 dollari al giorno 48,4 milioni di persone; nel il 2000, l’intera regione era stata ulteriormente svalutata e i salari erano scesi in maniera significativa portando il numero dei poveri a 55,6 milioni. Le persone che vivevano con 2,15 dollari al giorno erano passate dai 121,1 milioni del 1990 ai 135,7 milioni del 2000 (Bm, 2003). Il risultato di questo continuo aumento fu che nel 2002 la povertà colpiva il 62,1 per cento della popolazione.
Francisco Oliveira, all’apertura della Conferencia General del Consejo Latinoamericano di Cuba, descriveva come il neoliberismo avesse trasformato le nazioni e gli stati in stati eccezionali, per due versi: da un lato proteggono il capitale finanziario e dall’altro condannano intere popolazioni all’impoverimento in nome dell’accumulazione capitalista (CLACSO, 2003).
Rivendicare i beni comuni: concetti di autonomia
Per emanciparsi dall’esproprio è fondamentale una categorizzazione teorica dell’importanza dei beni comuni locali. L’autonomia è possibile solo all’interno del paradigma del dono e con una politica economica che metta al centro i beni comuni. Le comunità ancestrali sono unite nell’opporsi alla privatizzazione delle loro vite. Nell’ottobre del 2003 ci fu un esempio di difesa dei beni comuni in Bolivia che ebbe molta risonanza. Si sollevò una protesta che coinvolgeva le popolazioni indigene, i cacerolas contadini, il sindacato centrale (Central Obrera Boliviana) e la società civile. La sollevazione mirava a difendere i beni comuni ancora esistenti dall’esproprio delle risorse naturali e degli idrocarburi che sono nelle mani rispettivamente degli Stati Uniti e delle Transnational Corporations. Fin dall’inizio i movimenti avevano messo in chiaro l’opposizione alle politiche neoliberiste (che li stavano impoverendo) e al libero mercato degli americani. Pedro Fuentes (2003) sostiene che la Bolivia è un paese dove storicamente si intersecano le più grosse contraddizioni. Derubati dapprima dall’imperialismo spagnolo, britannico e statunitense, i boliviani adesso rifiutano di vendere gas agli Stati Uniti e al Messico, basandosi sul fatto che loro stessi sono stati depredati del gas destinato all’export. Secondo Mamani (2003), la politica dell’identità delle popolazioni indigene paralizza la Bolivia. La loro identità si basa su esperienze quotidiane come affinità di parentela, linguaggio (Aimara) e legami culturali. Una manifestazione pacifica fu seguita dall’uccisione di sei adulti e un bambino. Questo terribile crimine li incoraggiò a sostenere la loro autodeterminazione per difendersi, cosa che fu resa manifesta con azioni collettive, come i blocchi agli accessi, le ostruzioni delle strade, scontri con l’esercito, a cui si aggiunsero manifestazioni di massa, scioperi della fame e proclami politici. Poiché l’uccisione di indigeni e di lavoratori nelle miniere continuò, la battaglia del gas fu trasformata nella battaglia per ribaltare il governo. Alla fine, il movimento popolare guidato dai lavoratori delle miniere rovesciò il presidente Sanchez de Lozada.
Per gli indigeni e i campesinos della Bolivia il problema immediato, dopo l’espulsione del “loro presidente”, era rivendicare i beni comuni che erano stati espropriati dalle élite e dalle multinazionali americane. Guidati da Mallka, leader della Confederation Sindical Unica de Trabajadores Campesinos de Bolivia (CSUTCB) organizzarono l’occupazione diretta della terra per assicurare alla gente il controllo sulla propria vita, ricostruendo quello che era stato fatto nel passato (Correspondencia de Prensa 79). Stanno guardando alle pratiche tradizionali per avere qualche ispirazione che permetta loro di ritornare all’antico sistema: “El Qullasuyu” (Ortuzar, 2003). Stabilmente radicate nella cultura dei beni comuni, le popolazioni indigene si sono rivoltate al razzismo storico e alla dominazione etnica che hanno incoraggiato una violenza estrema ai loro danni. Dopo la sconfitta del governo, circa 100 famiglie di senza terra hanno occupato la proprietà dell’ex ministro della difesa mentre altri reclamavano 2000 ettari di terra appartenenti all’ex presidente (entrambi fuggiti, vivono adesso negli Stati Uniti) (Econoticias 2003). Rivendicano questa azione come “giustizia di comunità” contro due criminali; il primo, mandante dei recenti massacri (con 80 morti e 400 feriti) e il secondo, sostenitore delle politiche neoliberiste degli Stati Uniti finalizzate all’espropriazione della popolazione. La Bolivia sta ora lanciando l’appello per un nuovo valore di democrazia e una nuova ridefinizione dei beni comuni, in difesa della vita (Corrispondencia de Prensa Nos, 66 e 85).
Conclusioni
Fin dalla crisi del debito, 1982, l’indebitamento ha creato le condizioni per l’espropriazione delle masse attraverso le politiche allineate delle istituzioni finanziarie, in particolare quelle per la stabilità (FMI) e per gli assestamenti strutturali. Fin dal Summit della Terra, 1992, l’indebitamento è stato usato come scusa per ottenere beni comuni globali dai beni comuni locali. Nel mio saggio ho messo in evidenza come il sistema del prestito (capitale finanziario) nell’America Latina, presenti tutti gli aspetti dell’accumulazione primaria che Marx menziona ne “Il Capitale”: frode, ruberie ed espropriazione. Ho indagato anche tesi di femministe marxiste che sostengono che il capitalismo si regge sul lavoro non retribuito o mal retribuito delle donne delle zone rurali, sulle attività e il lavoro non pagato delle popolazioni contadine e indigene, così come sui beni naturali. Da questi accostamenti sono risultati tre vincitori: le banche commerciali che hanno realizzato profitti record sui prestiti, le multinazionali internazionali che hanno preso il controllo del lavoro a basso costo dell’America Latina e privatizzato i beni comuni sociali e le grosse Ong ambientaliste che hanno recintato i beni comuni naturali con la scusa della conservazione dell’ambiente. Tuttavia l’esproprio e la creazione dell’esclusione sociale sono problemi seri anche per la finanza internazionale, che ha finito per risolvere il problema con la militarizzazione. Dall’11 settembre 2001, le élite degli Stati Uniti e dell’America Latina hanno iniziato a criminalizzare le azioni tese a reclamare giustizia e le intimidazioni di protesta. Quando le comunità si difendono vengono definite “terroristi” e per il genocidio viene impiegata la polizia. Ma l’accumulazione tramite l’esproprio produce la radicalizzazione dei comunitari.
Traduzione italiana dell’Anonima Network
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* Il paese debitore vende a un soggetto terzo l’ammontare del debito pubblico nazionale a un costo molto basso; in questo modo il debito viene cancellato ma in cambio, la nazione si impegna a preservare a sue spese il patrimonio naturale (ndt).
* Ci sono due tipi di sistematiche nell’etnobotanica:quella scientifica o occidentale e quella popolare o etnotassomia (ndt).
* Termine usato in America Latina per fabbrica (ndt).
1 La cessione del debito è un meccanismo finanziario che scambia il debito con proprietà nelle industrie statali e nelle imprese pubbliche, con attività bancarie e con beni naturali.
2 Cos’è lo sviluppo sostenibile? Per la UNWCED è uno sviluppo che tiene conto dei bisogni e delle aspirazioni attuali senza che venga compromessa la possibilità di soddisfare anche quelli futuri.
3 La CENGO rappresenta le grosse organizzazioni ambientali che gestiscono e supervisionano i processi di socializzazione del capitale. Si tratta di una particolare categoria di funzionari al servizio delle classi dominanti, i cui manager sono coinvolti nel processo di globalizzazione delle multinazionali, di ristrutturazione economica e in pratiche coloniali. Nel passato, i principali obiettivi delle organizzazioni
ambientali associate è stato di identificare e guadagnare l’accesso alle aree sensibili da un punto di vista ecologico per usarne i siti a scopo di ricerca e per la raccolta di dati scientifici (Dawkins, 1992).
4 Le organizzazioni non governative iniziano le loro raccolte servendosi dei saperi locali tramite i paratassonomi e poi li trasferiscono alla comunità degli affari nazionale e internazionale. Nei loro schemi di conservazione, il lavoro del paratassonomo non produce valore aggiunto. I paratassonomi vengono considerati non specialisti perché non hanno una qualifica formale, benché il loro sapere venga usato per iniziare qualsiasi processo.
5 Indagine sull’attuale mondo degli affari, dissertazioni varie tratte da “The Free Flow of Money” di Doug Henwood, in NACLA Reporton the Americas, 1996: 15.
6 Per uno studio della pianta medicinale dell’Abanico e la cultura organica vedi Isla Ana (2003): “Women and Biodiversity as Capital Accumulation: An Eco-feminist View”, Socialist Studies Bulletin, N° 69, Winter.
7 Che cosa è l’AWID? L’Associazione per i diritti e lo sviluppo delle donne è un’organizzazione internazionale di membri che mette in contatto, informa e mobilita la gente e le organizzazioni con lo scopo di raggiungere l’uguaglianza di genere, uno sviluppo sostenibile e affermare i diritti umani delle donne. Lo scopo dell’AWID è di innescare un cambiamento politico, istituzionale e individuale che possa migliorare la vita delle donne e delle ragazze ovunque.
8 L’industria maquiladora produce abbigliamento e prodotti tessili, elettronici, componenti d’auto, mobili, prodotti chimici, cibo in scatola, giocattoli e prodotti in pelle (Abell, Hilary (1999) “ Endangering women’s health for profit: health and safety in Mexico’s maquiladoras.” Development in Practice, 9; 595).
9 Le organizzazioni paramilitari hanno il compito di sedare le proteste che nascono dall’esclusione sociale.
10 Il trattato sul debito fu elaborato e firmato durante il Global Forum del Summit della Terra nel 1992.
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